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PS5 e Xbox Series X: è giusto che il prezzo dei giochi aumenti?

Con l'arrivo di PS5 e XSX è ormai sicuro un aumento del prezzo dei videogiochi, ma le ultime notizie ci indicano una possibile nuova rotta nel modello di business

SPECIALE di Rosario Salatiello   —   24/09/2020

L'uscita di PlayStation 5 e Xbox Series X porterà con sé un aumento di prezzo dei giochi. Lo sapevamo in realtà già da mesi, da quando 2K Games aveva annunciato l'intenzione di vendere NBA 2K21 con un aumento di 10 dollari per le versioni nextgen rispetto a quelle per le console attuali. La conferma definitiva è arrivata dall'evento dedicato da Sony a PS5 pochi giorni fa, dal quale è emerso che giochi come Demon's Souls e Destruction AllStars arriveranno a costare dalle nostre parti 79,99 euro. Un prezzo al quale è lecito immaginare che si allineeranno anche altre produzioni, stabilendo un nuovo standard di vendita per i cosiddetti titoli tripla-A.

Dal punto di vista dei consumatori, l'aumento del prezzo dei videogiochi comporta ovviamente una conseguenza negativa per le proprie tasche, giustificata dalle software house con il costante aumento dei costi di sviluppo dei videogiochi. Aumento che in molti concordano essere conseguenza della richiesta del mercato di godere di titoli sempre più grandi e sempre più lunghi, beneficiando nel caso delle nuove console anche appieno delle bellezze offerte da ray tracing, 4K a 60 fotogrammi al secondo, e via discorrendo.

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L'approcciarsi della nuova generazione e gli spunti offerti dagli ultimi giorni ci obbligano a questo punto a fare alcune riflessioni: è giusto che i giochi per PS5 e Xbox Series X aumentino di prezzo? Non ci sono davvero altre alternative, né per i produttori né per i consumatori? Fino a qualche giorno fa la risposta sarebbe stata una sola, ma come stiamo per vedere nelle ultime ore ha preso sempre più corpo uno scenario alternativo.

Storia del prezzo dei videogiochi

Prima di provare a rispondere alle domande con cui abbiamo chiuso l'introduzione, andiamo a vedere un po' qual è la storia del prezzo dei videogiochi. Facciamo quindi un balzo indietro di trent'anni esatti fino al 1990, anno in cui Kick Off II per Amiga veniva venduto a 49.000 lire. Nel catalogo che abbiamo trovato online, scopriamo però che per la stessa piattaforma erano disponibili anche Leisure Suit Larry a 69.000 lire e Space Quest III a 79.000 lire. Un rapido passaggio su un calcolatore online che tiene conto dell'inflazione ci dice che il rapporto tra la lira di allora e l'euro attuale è pari quasi a uno a uno, cosa dalla quale consegue che per quello che era il potere di acquisto nel 1990 i giochi venivano in pratica venduti al prezzo attuale, in alcuni casi anche a qualcosa in più. Andando ancora più indietro, troviamo Space Invaders per Atari 2600: alla sua uscita (1981) veniva venduto a 41.750 lire, con adeguamento all'inflazione pari alla bellezza di oltre 85 euro di oggi.

A questo punto starete già pensando che da quegli anni il mercato dei videogiochi ha attraversato un boom che ha portato computer e console in tantissime case in tutto il mondo, compensando così i crescenti costi di sviluppo. Questo è sicuramente vero, così come è vero anche che i videogiochi sono cresciuti enormemente dal punto di vista dei contenuti e della complessità di realizzazione. Gli indie ci hanno mostrato che con budget ridotti è ancora possibile fare meraviglie accettando qualche compromesso, ma per i titoli AAA la richiesta resta sempre quella di avere contenuti e tecnica al top. La base installata può inoltre allargarsi solo fino a un certo punto fisiologico, e per i titoli più costosi ormai anche poter contare su milioni di console in tutto il mondo non sembra essere abbastanza.

Senza andare troppo indietro nel tempo, basta infatti considerare quanto tempo è che i giochi AAA vengono venduti a 69 euro: sono circa quindici anni che il prezzo dei videogiochi non aumenta, ma il loro costo di produzione nel frattempo è lievitato. In parte la "colpa" è anche di noi videogiocatori, sempre più desiderosi di poter giocare a titoli che durino quanto più possibile, permettendoci solo così di ammortizzare in modo soddisfacente la nostra spesa. Il primo The Last of Us durava quindici ore, il sequel venticinque. Eppure, se ci pensate, già immaginando una durata di sole dieci-quindici ore un videogioco ha già un rapporto prezzo/tempo d'intrattenimento nettamente superiore a quello del cinema, dove il costo di un biglietto in questi ultimi quindici anni è invece aumentato e neanche di poco. Il blocco dei prezzi a 69 euro è quello che di fatto ha causato la nascita di collector's edition particolarmente costose, season pass e microtransazioni. Non che si voglia giustificare il comportamento scorretto di alcuni nell'uso di queste ultime, badate bene, ma in alcuni casi ricorrere a queste soluzioni è diventato l'unico modo per sopravvivere. Pagare 10 euro in più potrà servire scongiurarle? Non del tutto, ma la direzione potrebbe diventare quella almeno per qualcuno: se a pensarla così è Cory Barlog, director di God of War, almeno un poco possiamo fidarci.

Quanto costa realizzare un videogioco

Appurato che i prezzi dei videogiochi per i consumatori sono immutati da diverso tempo a fronte di un aumento di complessità tecnologica e contenutistica degli stessi, andiamo a vedere nel 2020 quanto costa sviluppare un videogioco. È chiaro che la somma totale sia variabile a seconda del titolo, in quanto un gioco creato da un singolo sviluppatore indipendente non può essere paragonato con un AAA al quale lavorano centinaia di persone.

Il budget speso per realizzare un videogioco non è un aspetto del quale spesso sviluppatori e publisher amano parlare, per cui siamo costretti a basare il nostro ragionamento su una serie di stime e voci di corridoio. Nel 2015, per esempio, la realizzazione di Metal Gear Solid V è costata a Konami 80 milioni di dollari, per un lavoro di circa tre anni. Considerando che The Last of Us 2 ha visto un impegno da parte di Naughty Dog durato sei anni, è lecito pensare che il suo costo di sviluppo abbia nettamente superato i 100 milioni di dollari. Solo sviluppo, senza considerare tutti gli altri costi tra i quali il marketing, per i titoli tripla-A spesso in rapporto uno a uno coi costi di realizzazione del gioco.

Conti che tornerebbero con quelli fatti a giugno da Shawn Layden, ex boss di SIE Worldwide Studios secondo il quale i costi di produzione di un titolo AAA sono arrivati già nella generazione attuale tra gli 80 e i 150 milioni di dollari. Il futuro vede un ulteriore aumento con l'arrivo della nextgen, visto che "4K, HDR e la creazione di mondi non vengono a buon mercato". Queste le parole di Layden, secondo il quale l'estrema volatilità dei costi di realizzazione è destinata ad andare inevitabilmente a scontrarsi con la richiesta da parte dei giocatori di poter pagare sempre lo stesso prezzo. Una soluzione secondo lo stesso Layden potrebbe essere quella di limitare la durata dei giochi AAA, tornando come qualche tempo fa a giochi di una durata che sia intorno alle quindici ore con tempi di sviluppo inferiori, ma che puntino sulla qualità dell'esperienza complessiva rispetto a un gioco da ottanta ore dove il brodo viene allungato con palesi riempitivi.

Anche da parte dei videogiocatori si rende quindi necessaria una riflessione. Pretendere sempre di più e sempre allo stesso costo non è un modello sostenibile per nessun settore, e in quello videoludico è ormai così da più di dieci anni. Chi ama veramente l'intrattenimento elettronico dovrebbe giustamente criticare gli sviluppatori quando è giusto, imparando però anche a supportarli e premiarli quando se lo meritano. Urlare in faccia alla prima occasione per colpa di una presunta avidità non aiuta nessuno. A questo aggiungete il fatto che spesso rigettiamo l'acquisto al day one, fonte primaria di sostentamento per il mercato, aspettando un calo di prezzo destinato prima o poi ad arrivare, salvo alcune eccezioni.

Nuovi modelli di vendita

Fino a qualche giorno fa il nostro discorso si sarebbe a questo punto avviato verso una conclusione dove l'aumento del prezzo dei videogiochi a 79 euro appariva l'unica via attualmente percorribile. I fatti delle ultime ore hanno però spinto forte sul pedale dell'acceleratore di una delle strategie alternative, in realtà già messe in atto da tempo da uno dei principali concorrenti in gioco. Stiamo parlando dell'acquisizione di Zenimax da parte di Microsoft, con cui l'azienda di Redmond ha rilanciato con prepotenza il modello Xbox Game Pass. Abbattendo completamente qualsiasi ragionamento sul prezzo del singolo titolo, l'idea è infatti quella di proporre un "Netflix dei videogiochi" al quale abbonarsi mensilmente per accedere immediatamente a un catalogo contenente anche i giochi più nuovi.

Un'idea alla quale tutti hanno pensato visto il diffondersi del modello anche in altre aree dell'intrattenimento, ma che in realtà solo Microsoft può permettersi di gestire con la forza della propria salute in ambito economico. È stata infatti l'enorme liquidità (oltre 130 miliardi) a disposizione di Satya Nadella e della sua azienda a permettere una spesa di 7,5 miliardi di dollari in un investimento che potrebbe nei prossimi anni rivelarsi vincente. Con un catalogo di titoli AAA disponibili sin da subito, Game Pass diventa infatti un qualcosa di estremamente appetibile, senza che tra l'altro l'azienda di Redmond debba per forza puntare su una politica di esclusive. Anzi, con un'apertura totale anche verso il mercato PC l'idea sarebbe proprio quella di portare i propri titoli su quante più piattaforme possibili, grazie al modello Game Pass. Perché fare uscire il prossimo Fallout solo su Xbox Series X, quando i giocatori potranno trovarlo in abbonamento senza costi aggiuntivi, trovandosi invece costretti a spendere 79 euro per giocarlo su PlayStation 5? Con una situazione del genere, il mercato sembrerebbe obbligato a muoversi verso il mondo dei servizi, abbandonando così completamente l'idea di acquisto e possesso di un videogioco.

Per Sony, a questo punto, per proporre un nuovo modello le cose si fanno più complicate. La settimana scorsa Jim Ryan ha chiaramente detto che le nuove uscite non potranno mai arrivare su un servizio offerto tramite abbonamento, in quanto insostenibile come modello per la società giapponese. "Vogliamo creare giochi sempre più grandi e migliori e speriamo di renderli anche più persistenti", queste le parole di Ryan, dalle quali possiamo dedurre che le politiche su PlayStation 5 rimarranno le stesse di quelle adottate fino a questo momento, puntando su esclusive dall'impatto sempre più elevato destinate a dare valore all'ecosistema PlayStation.

Siamo quindi di fronte a un vero e proprio bivio, dove Microsoft e Sony andranno con la nextgen a differenziarsi in termini di offerta non solo per quello che riguarda la natura dei titoli a disposizione, ma anche (e diremmo principalmente) per quanto riguarda le politiche commerciali. Sarà ovviamente il mercato a decidere quale sarà il modello di maggior successo, con la consapevolezza di poter contare su una diversificazione dalla quale poter comunque trarre giovamento.

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