La difficoltà nei videogiochi è un argomento che difficilmente mette tutti d'accordo e, proprio perché tema così divisivo, è necessario affrontarlo con il giusto spirito e nella giusta sede. Dopo più di un anno di assenza torna la rubrica "N.E.R.d.D: Non È Roba da Donne" di Giordana: in ogni episodio viene presentato un tema e il punto di vista della nostra redattrice chiedendo poi a voi di partecipare alla conversazione. La riflessione sulla difficoltà nasce dalla pubblicazione pubblicato di un video, proprio qui su Multiplayer.it (potete trovarlo a questo link) relativo all'accessibilità nel mondo videoludico, in particolare l'accessibilità per i non vedenti. La chiusura del video recava un personale auspicio di Giordana, ovvero quello di vedere sempre più spesso videogiochi che presentassero vari livelli di difficoltà, o che perlomeno, introducessero delle meccaniche o delle opzioni che potessero cambiare in qualche modo l'esperienza di gioco. Dopo aver ricevuto alcuni feedback da parte di voi lettori, lo step successivo è stato quello di ficcanasare un po' anche in forum italiani e stranieri, leggendo delle discussioni su Reddit e Quora e la situazione era decisamente meno civile di quanto ci si potesse aspettare.
DIFFICOLTÀ E LIBERTÀ CREATIVA
Forse tra le meno inflazionate, ma contemporaneamente anche la più legittima tra tutte le obiezioni, vi è sicuramente quella della libertà creativa. Perché, giustamente, quello che potremmo tutti chiederci è perché uno sviluppatore dovrebbe creare un videogioco includendo diversi livelli di difficoltà se lui ha pensato quel videogioco per essere giocato in un modo univoco ed esclusivo? Qui è necessario un piccolo inciso per spiegare in che modo i videogiochi moderni potrebbero e dovrebbero riflettere sul tema della difficoltà. Questo infatti non va inteso come un abbassamento generalizzato del livello di difficoltà di uno specifico gioco: ogni team di sviluppo infatti è libero di creare videogioco che vuole e difficile quanto vuole. Se però il gioco include diversi livelli di difficoltà o, se non è pensato per avere dei livelli di difficoltà, include almeno delle opzioni di accessibilità che permettono di modificare l'esperienza di gioco, è chiaro che quel gioco lo giocheranno più persone.
Parliamo quindi di qualcosa di opzionale che non è obbligatorio è che non impatta sull'esperienza di gioco di tutti i giocatori. In sintesi. Il discorso dovrebbe essere: "Ecco tieni giocatore. Questo è il videogioco che io ho creato e l'ho pensato così. Se però non riesci a giocarlo a questo livello di difficoltà perché ostacolato da problematiche che dipendono da una disabilità o semplicemente perché non ci riesci non fa niente, puoi attivare questa god mode, puoi ridurre i danni fatti dai nemici, puoi allungare il tempo di attesa di un quicktime e giocarlo anche tu. Anche perché è vero che uno sviluppatore è libero di creare ciò che vuole ma è anche vero che non sa a priori chi giocherà il suo gioco.. del resto non viviamo più il glorioso periodo della sala giochi dove molti videogiochi difficili, non per chissà quale velleità artistica, ma semplicemente perché dovevano rubarci la monetina. Inoltre è anche un discorso che va a vantaggio dello sviluppatore perché più persone giocano un tuo titolo più se ne parla e magari, in futuro quelli, saranno consumatori soddisfatti che ricomprano il tuo gioco.
UN PROBLEMA CULTURALE
Scandagliando un po' il sentiment comune, è come se esistesse questa strana associazione per cui più un videogioco è difficile più è bello, creando uno scenario dove il valore qualitativo dell'opera è proporzionale al livello di difficoltà. Un modo di intendere i videogiochi, nell'opinione di chi scrive, totalmente incomprensibile e che peraltro pare essere radicata nella cultura dei videogiocatori, un fenomeno che ormai fa parte della sub-cultura videoludica di noi gamer.
Cos' ha potuto instillare in così tante persone questa convinzione? Ragionando per grandi numeri la saga che ha avuto il maggior impatto nella community di videogiocatori è stato senz'altro Dark Souls e con essa molti altri titoli dello stesso sviluppatore, FromSoftware. Qui però si crea un forte cortocircuito e la filosofia difficile=bello nasce forse da un'errata (ma globalmente condivisa) comprensione di cosa sia realmente difficile in un souls-like, o meglio, di dove risieda la vera difficoltà di un Souls. Questa probabilmente risiede nel conoscere e comprendere il gioco, il trovarsi di fronte a un nuovo livello, una zona inesplorata che brulica di nemici che non sappiamo come si comportano o come ci attaccheranno, o meglio ancora ritrovarsi di fronte ad un enorme Boss; la sfida più grande sta memorizzare la mappa i suoi percorsi, trovare le scorciatoie, ricordare esattamente dove ogni nemico sia collocato e imparare a memoria ogni pattern di attacco di ogni nemico, ragionare e rimuginare molto spesso sul come abbattere il boss enorme di cui sopra.
Molti giocatori però sono, nel giudizio di chi scrive, erroneamente convinti che la difficoltà
sia rappresentata dai nemici particolarmente potenti, in quelli che con uno spintone vigliacco ci fanno cadere in un precipizio con duecentomila anime in saccoccia, dai boss volutamente overpowered che ci guardano storto e ci ammazzano. Quella non è la vera difficoltà del gioco, è un escamotage che funziona molto bene per creare quel contorno emotivo e psicologico che caratterizza l'esperienza di gioco: quel senso di solitudine, di oppressione, di sconforto anche un po' di frustrazione che permea tutti i souls-like e che ci ha accompagnato nel corso della nostra avventura. Però è altrettanto vero che non tutti siamo uguali e l'inserimento ad esempio di una God Mode o di aiuti che potrebbero facilitare l'esperienza di gioco non va assolutamente a modificare quella degli altri giocatori.
QUELLI CHE NON SONO CAPACI
È come stai dopo una lobotomia ci fossimo completamente dimenticati di tutte le cose belle che i Souls hanno fatto per noi e per il mondo dei videogiochi e considerassimo soltanto gli elementi più divisivi, più elitari, senza ricordarci ad esempio di quanto il bilanciamento della difficoltà costituito dal multiplayer cooperativo dei Soul sia uno tra i più intelligenti e brillanti. Quando prima parlavamo di un problema di tipo culturale era proprio a questo a cui ci riferivamo, ad una mentalità condivisa da diversi giocatori che trovano fastidioso il fatto che ci siano persone che si lamentano che il loro gioco preferito, gioco a cui loro sono molto bravi, sia troppo difficile... perché puntualmente quando qualcuno si lamenta della difficoltà di un videogioco, la risposta che viene fornita è sempre sotto forma di domanda: "Ma se non sei capace, perché ci giochi?" Conoscere i propri limiti è una virtù essenziale nella vita ma vien da chiedersi perché propinare una risposta così arrogante ad una persona che non condivide i nostri stessi limiti e capacità. Anche perché la sua incapacità non pregiudica l'esperienza di gioco di chi è più bravo. Per far capire quanto è folle questo modo di ragionare, e forse anche un po' maleducato, proviamo a ribaltare questo concetto in un territorio diverso. Molto spesso quando parliamo di difficoltà nei videogiochi, parliamo sempre di una sorta di muro nella sfera dell'abilità, facciamo riferimento a qualcosa di fisico.
Sono diversi i giochi che, sempre più spesso, includono piccoli enigmi e puzzle all'interno dell'esperienza di gioco dando al giocatore la possibilità di utilizzare aiuti per risolverli. I motivi per cui qualcuno può avvalersi di un suggerimento sono diversi ma questo non rende né quella persona inferiore rispetto a chi li ha usati né tanto meno rende il puzzle più semplice da risolvere a chi il suggerimento l'ha ignorato. Sarebbe molto scortese dire a qualcuno "Perché se sei stupido e non sai risolvere questo puzzle giochi ancora a questo gioco?" Eppure ci piace creare queste divisioni, questi gruppi tribali, dove da una parte ci siamo noi, gamer eletti e superiori, e dall'altra parte ci sono tutti gli altri, i non degni: il videogioco però dovrebbe essere un momento di comunione, non un momento in cui traccia linee. È comprensibile che l'apertura del mercato al pubblico di massa abbia uniformato alcuni aspetti dei videogiochi contemporanei e per questo trovare qualcosa di realmente stimolante per alcuni sia diventato complesso ma è anche vero che questa apertura permette un maggior flusso di denaro nell'industria, più competizione. Aver accolto tra le fila dei gamer anche quelli che non sono capaci a giocare ha portato ad esempio alla nascita di Giochi come The Last of Us Parte II che è contemporaneamente il gioco più accessibile e più mainstream del mercato... e, fate un bel respiro, perché alla fine va bene così.