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Dear Esther, la recensione su iOS

A sette anni dall'uscita originaria su PC, Dear Esther investe del suo fascino anche le piattaforme mobile

RECENSIONE di Giorgio Melani   —   09/10/2019

Suona un po' strano ma ripubblicare questo titolo ora su piattaforme mobile, a sette anni di distanza dalla sua prima uscita (a 11 da quella iniziale come mod) e con tutti i cambiamenti che sono avvenuti nel panorama videoludico - peraltro aiutati fortemente dalla sua stessa esistenza - assomiglia a fargli un torto, come vediamo in questa recensione di Dear Esther su iOS. Da una parte vorremmo dire che, come certe grandi opere artistiche, anche questo titolo di TheChineseRoom è sostanzialmente eterno e in grado di sostenere qualsiasi test del tempo, dall'altra è facile rendersi conto che il suo modo di porsi aveva sicuramente più senso una decina d'anni fa che non adesso. Ironia della sorte, questo ridimensionamento avviene in gran parte proprio grazie al proliferare di quel genere ibrido che Dear Esther ha aiutato a far nascere ed evolvere, presentandosi al pubblico con un impatto che, all'epoca, era dirompente e fuori da tutti gli schemi imposti dalla tradizione videoludica.

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Per chi non lo conoscesse, il titolo in questione è nato nel lontano 2007 come una mod basata su Source Engine da parte di Dan Pinchbeck, diventando qualche anno dopo un vero e proprio prodotto videoludico grazie a un finanziamento di Indie Fund e all'aggiunta di Robert Briscoe ad arricchirne l'estetica sul fronte artistico e Jessica Curry per l'accompagnamento musicale. Ne è venuta fuori un'opera affascinante e seminale, avendo di fatto fondato quello che può essere considerato a tutti gli effetti un sotto-genere ufficiale delle avventure, oggi solitamente definito come "walking simulator", accettando non senza una certa ironia un'etichetta che originariamente era stata affibbiata con un certo disdegno. Come tutte le opere che scardinano i canoni imposti dalle logiche di genere e di fruizione di media ed espressioni artistiche, la ricezione è stata controversa ma la prima reazione a Dear Esther fu soprattutto di meraviglia, di fronte a quel perfetto connubio tra le ambientazioni da esplorare, l'accompagnamento musicale e la frammentata base narrativa, la cui qualità di scrittura aveva davvero pochi precedenti. Per vedere come la percezione di un gioco del genere possa cambiare però in base al periodo storico basta vedere come le valutazioni fossero già decisamente più fredde circa cinque anni dopo, all'epoca dell'uscita su console, quando il genere delle avventure narrative contava già diversi esponenti di grosso calibro.

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Può essere un punto di vista un po' prosaico, ma dopo aver provato titoli in grado di giocare con le regole del videogioco e della narrazione raggiungendo risultati espressivi di grande impatto come Gone Home, Oxenfree, Firewatch, Soma, The Stanley Parable e altri, tra i quali gli stessi giochi successivi di TheChineseRoom, ritornare a Dear Esther o viverlo adesso per la prima volta può far emergere maggiormente i limiti di questa esperienza, che tuttavia merita grandissimo rispetto e conserva ancora la sua potenza espressiva.

I luoghi dell'anima

Dear Esther ha rinnovato con forza la discussione sulla definizione stessa di videogioco, proprio per il suo spingersi ad esplorarne i confini, presentandosi come un'opera in grado di piegare le regole standard del medium per consentire la messa in scena di un racconto secondo una visione particolare degli autori. L'interazione è limitata al massimo, consentendo solo di muoversi per esplorare, attraverso una visuale in soggettiva, i meravigliosi scenari di una misteriosa isola che sembra totalmente disabitata, ascoltando una voce narrante che racconta una storia frammentata in forma di lettere, spesso apparentemente senza capo né coda. Una forma così elementare di interazione ha il preciso scopo di creare una connessione tra l'atmosfera delle ambientazioni e la narrazione spezzettata, contorta e fumosa ma in grado di stimolare le emozioni in maniera anche inconscia, attivando le sinapsi ricettive che spingono ad entrare in quegli ambienti e lasciarsi trasportare. La lirica di Dear Esther è ermetica ma si serve del connubio tra immagini e testo per creare una forte connessione con il giocatore, che vive direttamente il malinconico e disperato percorso del protagonista nel suo vagare per l'isola. Il racconto scoordinato di un uomo che vive il dramma di un abbandono, chiamando in causa ricordi e figure del passato per affrontare il dolore, assume progressivamente senso e spinge ad arrivare in fondo per capire il tutto, anche se alla fine rimane aperto a diverse interpretazioni che possono portare a riviverlo più volte per comprenderlo a fondo (almeno per quanto sia possibile farlo), considerando anche che dura meno di due ore.

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A questo lavoro di immedesimazione e decodifica è demandata sostanzialmente la componente interattiva del "gioco", che si smarca dalla passività totale con questa soluzione narrativa, lasciando al giocatore la possibilità di modificare i tempi di ascolto/lettura soffermandosi sulle ambientazioni e contemplando i panorami che sono estensione visiva del racconto. È qualcosa di molto più semplice e basilare rispetto a quanto fatto da altre avventure di questo tipo in seguito e proprio questo è il problema principale di Dear Esther, oltre al fatto di perdere un po' del suo originario potere immersivo sugli schermi delle piattaforme mobile. Per il resto, il gioco corrisponde precisamente alla Landmark Edition uscita sulle console successivamente all'originale, con l'aggiunta del commento e la possibilità di selezionare le ambientazioni da esplorare una volta sbloccate, senza ulteriori novità applicate al di là di un ottimo lavoro di conversione.

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Conclusioni

Versione testata iPad
Digital Delivery App Store
Prezzo 5,49 €
Multiplayer.it
7.5
Lettori
ND
Il tuo voto

Si prova un certo disagio a valutare Dear Esther ora. È chiaro che un buon racconto non può invecchiare, ma se questo presuppone una precisa modalità di fruizione attraverso un modello di interazione più o meno strutturato, allora ci sono elementi che possono subire una certa obsolescenza. Questo è un po' quello che è successo a Dear Esther: l'alto livello della scrittura e il fascino delle ambientazioni sono rimasti inalterati ma il meccanismo narrativo sembra quasi una vecchia reliquia, in particolare se vissuto dopo alcune delle esperienze che sono uscite successivamente sul mercato e che pure devono molto, per non dire tutto, a questo titolo. La sua importanza seminale resta, ma la pianta che ha contribuito a far nascere ormai lo sovrasta.

PRO

  • Atmosfera sempre di grande impatto
  • Testi ermetici ma di ottimo livello
  • Accompagnamento musicale piacevole

CONTRO

  • Meccanica narrativa estremamente basilare
  • Nessuna traduzione in italiano
  • Molto breve