Esistono molteplici definizioni di arte, poche delle quali sono davvero soddisfacenti. Nella maggior parte dei casi ci troviamo di fronte a intendimenti fin troppo riduttivi, che non riescono a racchiudere non solo l'essenza dell'arte, quanto i presupposti stessi della sua esistenza. Ad esempio sono molto diffuse le definizioni emotive, generalmente amate dalle masse, che si limitano ad associarla ai sentimenti e alle emozioni in generale.
Quante volte avrete sentito dire che sono opere d'arte tutte quelle che suscitano emozioni? Una definizione del genere include nel novero dell'arte anche i calci nei testicoli, molto più emozionanti di qualsiasi quadro o film. Comunque non è questa la sede per affrontare un dibattito così ampio, che impegna da secoli intellettuali e artisti e che vede in campo riflessioni articolate e complesse al punto da essere irriproducibili in un contesto così limitato. Diciamo che è giusto rifiutare le semplificazioni contemporanee, generalmente dettate da bieca superficialità, soprattutto quelle che vengono sparate come cartucce a salve sui social network. L'arte non è mera emozione, l'arte non è solo espressione individuale, l'arte non è la vita come dovrebbe essere e via discorrendo. Peggiori ancora sono le definizioni d'interesse, quelle che nascono da meri fini di bottega, tipiche di alcuni ambienti culturali un po' mafiosetti. Quello che ci interessa capire con questo breve speciale non è se i videogiochi siano o meno arte in senso generale, perché sappiamo perfettamente che non è così. Del resto nemmeno tutti i filmati sono opere d'arte, così come non lo è ogni testo scritto o ogni disegno. Il nostro obiettivo è molto più limitato: esistono dei videogiochi che possano essere definiti opere d'arte?
Definizioni impossibili
Normalmente le personalità più critiche nei confronti dei videogiochi sono molto più persuasive dei videogiocatori stessi nell'assegnare all'intero medium un forte valore espressivo. Definirli capaci di plagiare menti o di spingere addirittura alla violenza equivale a riconoscere la pervasività del loro linguaggio, pur connotata in modo fortemente negativo.
Insomma, se si ammette che i videogiochi possano esprimere messaggi di intensità tale da alterare il comportamento sociale di una persona, di fatto si ammette anche che possano affrontare ogni sorta di tema con la stessa forza. Il difficile è farlo ammettere ai videogiocatori. Ovviamente non stiamo affermando che la fruizione di alcuni videogiochi possa portare un individuo a commettere atti di violenza, ma vogliamo capire e dare voce a quel senso di inquietudine che si prova di fronte a opere in cui è impossibile quantomeno non percepire una volontà estetizzante o espressiva, non riducibile ai normali concetti che solitamente si usano per valutarla, anche su queste pagine. Insomma, per essere più chiari, quando si fruisce di un titolo come The Stanley Parable, tanto per fare uno dei molti possibili esempi, cos'è che ce lo fa piacere? Non certo le sue meccaniche, ridotte davvero all'osso, e nemmeno la sua durata o la sua parte tecnica in quanto tale. Lo stesso si potrebbe affermare di un Dear Esther, di un The Path o di un Gone Home, per parlare di altri casi. Si tratta di titoli a loro modo molto discussi e molto amati, contro cui solitamente i più critici tendono a sfoderare l'arma suprema della rimozione: "non sono videogiochi". E allora cosa sono?
Cosa non è arte
Uno dei problemi principali nell'affrontare il discorso è che si fa molta confusione e spesso per arte si intende l'applicazione di un mestiere alla creazione di un videogioco. Se parliamo di capacità degli sviluppatori magari è così, e possiamo affermare senza troppi traumi che quel gioco ha un design fatto ad arte, o quell'altro ha delle musiche evocative e così di seguito, passando per i bei testi o le ottime texture. La questione qui non è tanto la capacità messa in campo dai singoli individui o la bellezza di questo o quell'elemento che compone uno scenario.
Se così fosse per rendere tutti i videogiochi opere d'arte basterebbe mettere in ognuno delle riproduzioni di quadri famosi, ma di fatto non è così. Ad esempio non basta mettere la Venere di Botticelli sui cartelloni di un gioco di guida per renderlo automaticamente arte. Anzi, diciamola tutta: perché un gioco di guida, per quanto prodotto con sapienza tecnica estrema, dovrebbe essere definito come tale? È scontato che questa non sia nemmeno una sua ambizione ed è sbagliato cercarci dentro altro se non un ottimo gioco di guida, che magari ci faccia provare l'emozione di essere al volante di bolidi costosissimi in luoghi da sogno. Insomma, non possiamo negare che un'auto di Forza Horizon 2 sia stata riprodotta con cura e abilità, e non possiamo nemmeno negare che sfrecciare a trecento chilometri orari su pista sia eccitante, ma tutto questo non è definibile arte nel senso più profondo e moderno del termine. Non è però nemmeno giusto limitarsi a considerare i videogiochi come una mera forma tecnologica d'intrattenimento, perché non è così. Il difficile è trovare un punto di partenza, qualcosa che ci spinga non tanto verso una definizione di videogioco come arte, inutile quanto dannosa, ma verso l'individuazione di similitudini che permettano di riconoscere quel valore espressivo che moltissime opere hanno dimostrato di avere. Insomma, porre paletti formali che pretendano l'universalità equivarrebbe a costruire un muro nel deserto per fermare lo scorrere delle sabbie, per poi bearsi di averne fatta ammucchiare un bel po' mentre tutta l'altra è fuggita via.
Gli esempi del passato
Quando i fratelli Lumiere esposero il cinematografo al pubblico non avevano nessuna ambizione artistica. La loro visione era molto più prosaica: avevano ottenuto un grande risultato tecnologico e volevano usarlo per stupire la società borghese parigina di fine ottocento, facendoci un po' di soldi. Insomma, avevano prodotto una forma d'intrattenimento tecnologico cui non attribuivano particolari capacità estetiche e in cui non vedevano alcun futuro. I primi spettatori hanno un rapporto infantile con il nuovo medium di cui commentano soprattutto la capacità di riprodurre la realtà in modo mai visto prima.
Nessuno tra loro si sognerebbe mai di sfruttarlo come volano per un qualche dibattito intellettuale. Come scritto dall'autore di questo articolo altrove: "Il cinema come arte è un'invenzione successiva al cinema inteso come tecnologia per riprodurre il movimento attraverso le immagini." Il cinema non aveva e non ha proprietà espressive intrinseche, non nasce come un linguaggio, ma con il tempo alcune grandi personalità iniziano a intravederci possibilità in tal senso: "Potter, Griffith, Chaplin, Buster Keaton, Eisenstejin, Murnau e così via sono solo alcuni dei nomi che hanno accompagnato il processo di emancipazione della nuova arte, mentre le resistenze da parte degli ambienti intellettuali si sono fatte sentire forti e non sono mancati spettatori illustri che hanno prodotto invettive sperticandosi in paragoni con la letteratura e il teatro; come dargli torto? In fondo per loro il cinema era solo divertimento e tale doveva rimanere. Al massimo poteva veicolare le emozioni più elementari, ma non poteva certo ambire alla ricchezza psicologica e filosofica della letteratura e del teatro." I pregiudizi del pubblico di allora verso il cinema, dal più popolare al più colto, sono gli stessi del pubblico di oggi verso i videogiochi, supponenza e arroganza assolutista compresi. Il cinema non è un'arte, ma lo diventa, grazie al lavoro di chi ha riflettuto, lavorato e scritto per renderlo tale, elaborandolo come linguaggio e creando un terreno fertilissimo per le elaborazioni successive.
I videogiochi sono una forma d'arte? Scopriamolo in questo speciale dedicato all'argomento
Domande irrisolte
Nel mondo dei videogiochi esiste un terreno simile? Nì, nel senso che se volessimo parafrasare una nota parabola biblica, finora chi ha dissodato i campi non ha trovato seminatori, mentre chi aveva i semi li ha lanciati tra i rovi.
È vero che qualcosa si è mosso, perché qualcosa, inevitabilmente, si muove sempre, ma i tentativi organici di affrontare il problema sono rarissimi e l'iniziativa viene lasciata ai singoli, sia dagli operatori del settore, che si ricordano del valore espressivo del medium videoludico solo quando finisce in qualche telegiornale associato a crimini vari, sia da parte dei videogiocatori, che spesso mettono dei pregiudizi di fronte alla pur alta considerazione che hanno del medium. Molti sembrano essere semplicemente disinteressati all'argomento, ma posti di fronte a delle banali questioni crollano inesorabilmente. Ad esempio non hanno riflettuto e non sanno spiegare la fascinazione esercitata da alcuni titoli, che va ben oltre la perfezione dei processi meccanici da cui è regolato il gameplay. Ma facciamo qualche esempio concreto. Passeggiando per Dear Esther non incontriamo nessuno. Ogni tanto possiamo leggere degli strani messaggi che vengono declamati da una voce, che supponiamo appartenere al protagonista. Non ci viene chiesto molto in termini di sfida, se non continuare a camminare per i quattro livelli che compongono l'isola. Insomma, il gioco ha poche meccaniche, oltretutto davvero banali. Eppure non basta molto per farsi coinvolgere in qualcosa che non è quello che sembra. La banalità è funzionale al racconto e l'unica strada percorribile è piena di rappresentazioni plastiche della discesa verso la follia che si esprimerà appieno nell'uscita dalla grotta dell'ultima mappa, con l'occhio lunare che ci osserva mentre compiamo i nostri ultimi passi dall'uscita della grotta verso il suicidio finale. Sono moltissimi i titoli che hanno provato a replicare la formula dettata da The Chinese Room, senza riuscirci. Il problema è che Dear Esther non ha nessuna formula da replicare.
Basta prendere un qualsiasi sparatutto in prima persona e limitarsi a togliere quasi tutte le meccaniche, lasciando solo la camminata, per ottenere esattamente lo stesso "gioco", ma con dei valori in campo molto diversi. Domandiamoci ad esempio se passeggiare per un livello di Titanfall produrrebbe lo stesso effetto, per quanto sia tecnicamente migliore. Il perché la risposta sia negativa dovrebbe essere abbastanza chiaro: uno è stato pensato come uno sparatutto competitivo, con i livelli che, per quanto spesso bellissimi da vedere, sono strutturati per accogliere squadre di soldati virtuali che si sparano addosso, mentre l'altro è stato pensato come... Dear Esther, ossia come un'opera unica in cui ogni elemento entra in relazione con gli altri per produrre senso. Il faro che si incontra nei primi momenti di fruizione non è un bell'oggetto fine a se stesso ed entra in una relazione profonda con tutto ciò che appare successivamente, creando una rete di collegamenti, suggerimenti e rimandi che determinano una visione del mondo, non riducibile al solo intrattenimento. Insomma, Dear Esther è stato generato intorno alle sue tesi espressive, mentre Titanfall è stato costruito intorno alle sue tesi di gameplay. Entrambi fanno parte del macro genere dei giochi in prima persona, ma chiunque può rendersi conto di quanto siano profondamente diversi e di quanto i loro obiettivi divergano. Il confronto si fa più difficile se al posto di Titanfall mettiamo The Stanley Parable di Galactic Cafe o Mind: The Path to Thalamus di Carlos Coronado, Dani Navarro e Luka Nieto, oppure Fatale dei Tales of Tales, tanto per fare altri tra i molti possibili esempi. La verità è che anche in questo caso si tratta di titoli molto diversi tra loro, per quanto tutti in prima persona, eppure giocandoci è impossibile non percepire un fine comune, diverso dal far divertire chi gioca. Anzi, paradossalmente il divertimento, fondante per un titolo come Titanfall, danneggerebbe il gameplay degli altri citati.
Conclusioni provvisorie
Non vogliamo certo esaurire un argomento così vasto e complesso con un piccolo speciale di poche migliaia di caratteri, che vi confessiamo avere come scopo principale di verificare che ci sia ancora un qualche interesse ad affrontare seriamente la questione tra voi lettori. Le problematiche affrontabili parlando di videogiochi come arte sono moltissime, ma sarebbe deleterio gettarle tutte insieme nello stesso testo. Diciamo che qui abbiamo deciso di introdurre il problema dell'indefinibilità della questione e di come si possa rispondere alla domanda iniziale, ossia se esistono dei videogiochi che possano essere definiti opere d'arte, soltanto partendo da un sistema di somiglianze che tenti di capire quando un videogioco assume questa funzione e senza pretendere che tutti lo siano o debbano necessariamente esserlo. Se già riuscissimo a capire quando un videogioco X è un'opera d'arte, chiarendo la natura aperta del concetto per poterlo ampliare in caso dell'emergere di nuove forme e perdendo ogni vergogna di porre la questione, sarebbe un bel passo avanti. Ovviamente per poterlo fare c'è bisogno che si avverta la necessità del problema e di come un dibattito più approfondito sulla questione farebbe soltanto bene all'industria tutta.