Alcuni resistono, molti hanno cambiato insegna e sono entrati a far parte di catene più grandi, altri li ha sbranati senza pietà la grande distribuzione. Sono i negozi di videogiochi, luoghi ormai quasi mitologici in cui un tempo non solo si acquistavano DVD e dischetti, ma dove si poteva trascorrere un intero pomeriggio a cazzeggiare... insomma, un po' come al bar. Quando il digital delivery era solo una favola per bambini e la connessione internet al massimo permetteva di scaricare qualche MP3 dopo una mezz'oretta di attesa, i negozi di videogiochi erano veri e propri centri culturali intorno ai quali gravitava tutta l'intellighenzia locale, suddivisa tra quelli che pontificavano sulle uscite, sul successo di questa o quella console e quelli che si misuravano in tornei estemporanei. Di solito nei negozi non c'era la classica postazione demo con la console messa in sicurezza e il controller bloccato a cui siamo abituati adesso, il proprietario semplicemente ne attaccava una al televisore posizionato su un tavolino per consentire agli acquirenti di provare brevemente i giochi prima di comprarli. D'altronde mica si potevano scaricare le demo o vedere i filmati su YouTube! Non era raro però che, con la scusa di "provare il gioco", si passasse tutto il pomeriggio inchiodati alla console, ma questo dipendeva dal rapporto che si aveva col gestore.
I negozi di videogiochi erano strani mondi popolati da una fauna bizzarra: voi che tipi eravate?
Il negoziante
Chi stava dietro al bancone era spesso una figura leggendaria, un semidio che conosceva ogni titolo, che passava tutto il suo tempo in mezzo ai giochi e che probabilmente doveva pure provarli tutti. Altro che astronauta, pilota di caccia o spia, il lavoro dei sogni di ogni bambino era aprire un negozio di videogiochi. Oggi come allora i gestori si dividono in due categorie: chi ci credeva e chi avrebbe potuto tranquillamente vendere robaccia al mercato. Tra quelli che li amavano davvero c'erano i fanboy che ti consigliavano solo ciò che piaceva a loro e gli evangelisti che quando gli chiedevi un parere ti attaccavano con una filippica di mezz'ora sul valore del videogioco come arte e su come fosse imprescindibile possedere certi titoli.
In entrambi i casi il modo migliore per giocare un po' senza essere disturbati era starli ad ascoltare... ma col cervello concentrato sullo schermo. Poi c'era quello che doveva disfarsi dei fondi di magazzino e ti diceva che quel titolo di cui non parlava nessuno era un capolavoro incompreso, ma per fortuna non capitava tanto spesso. All'angolo opposto c'erano quelli che avevano sentito che i videogiochi erano un mercato in espansione, quindi avevano provato a lanciarsi nel settore. Sono gli stessi che poi convertiranno il negozio prima in un rivenditore di telefonini e poi in una boutique di sigarette elettroniche. Questi personaggi di solito se ne stavano dietro al bancone con aria assente, senza considerare i ragazzini che chiedevano informazioni e davano risposte evasive mentre cercavano freneticamente di carpire qualcosa leggendo sul retro della confezione. Ascoltandoli si potevano cogliere perle del tipo: "Sì, be', è un titolo dedicato ai bambini, la grafica è come un cartone animato... ci sono delle piattaforme con dei funghi e poi c'è l'acqua..." e stavano descrivendo Super Mario! Nei casi più catastrofici il negoziante esperto veniva momentaneamente sostituito dalla moglie o da qualche conoscente totalmente a digiuno di videogiochi che passava la giornata nascosto dietro la cassa con l'aria di chi vuole evitare l'interrogazione di matematica, senza mai incrociare lo sguardo di nessuno per paura di dover dare informazioni. Ultimamente si è poi affermata una nuova razza, che potremmo definire "piazzisti dell'ultim'ora", ovvero quelli che quando compri un gioco cercano di affibbiarti già il preorder del seguito o l'assicurazione contro i graffi sul CD causati da catastrofi naturali, come il barista dell'Autogrill che cerca di venderti il Gratta e Vinci.
Gli avventori
Ma la vera élite del negozio di videogiochi è sempre stata rappresentata dalla fauna che li popolava, quelli che avevano eletto quello spazio a vero e proprio punto di ritrovo. Di base, c'era almeno un meganerd di ordinanza, possibilmente dotato di maglietta di un gruppo metal, capello unto e parlantina incerta che diventava spedita solo quando raccontava dei suoi titoli preferiti. Il meganerd era un personaggio amato/odiato dal gestore, in parte perché lo faceva sentire un incompetente, anticipando le sue risposte o correggendole, in parte perché gli alleggeriva il compito di dover spiegare venti volte la stessa cosa. Nei casi più eclatanti il meganerd veniva assunto dal negoziante, gesto che nel settore era equiparabile all'investitura a cavaliere o alla beatificazione. Di solito questi personaggi catalizzavano intorno a sé un gruppo di persone che commentavano con la serietà di senatori romani la trama di Metal Gear Solid o le tattiche migliori per ottenere le patenti di Gran Turismo, cercando nel frattempo di capire quale fosse il codice per spogliare Lara Croft. Di solito è in questo conciliabolo di menti illustri che si palesava un'altra figura fondamentale. Anni dopo lo avremo definito hipster, ma allora era semplicemente il ragazzino fastidiosetto e saccente che cercava a tutti i costi un gioco rarissimo, che piaceva solo a lui, e ovviamente guardava il gestore con malcelato disgusto se non ce l'aveva. Questi personaggi erano soliti chiedere ai negozianti giochi assurdi, ottenibili esclusivamente attraverso l'importazione parallela, per il puro gusto di farli sentire inadeguati, ma spesso il meganerd riusciva a tenerli a bada. Gli unici che si tenevano distanti dal dibattito erano gli avvoltoi dell'usato, loschi figuri silenziosi e rapaci che passavano tutto il tempo a spulciare lo scaffale dei giochi di seconda mano e che riuscivano a fregarti come ninja provetti il titolo che attendevi da tempo e che speravi di portarti a casa a poco prezzo. Altri personaggi che non potevano assolutamente mancare in un negozio degno di questo nome erano gli studenti che avevano bigiato a scuola. Li individuavi subito perché arrivavano di mattina, evitavano di stare vicini alla vetrina e avevano sempre lo sguardo nervoso che passava freneticamente dal doppio a PES alla porta d'ingresso, per capire se era il caso di rifugiarsi nel retrobottega ed evitare la ronda di qualche genitore. C'erano poi gli inevitabili bambini casinisti, quelli che dopo lagne e piagnistei riuscivano a trascinare il genitore all'interno del negozio con un semplice obiettivo: pregare in ginocchio per un gioco o una console, richiesta che puntualmente veniva disattesa, mentre il negoziante, sadico, gli snocciolava davanti tutti i pregi del prodotto. Una volta capito che non c'era speranza erano soliti occupare con arroganza le postazioni di gioco, ignorando bellamente le file che si formavano alle loro spalle.
Donne e genitori
Figura mitologica e quasi evanescente era invece quella della ragazza. Essere metà donna e metà noia che accompagnava ragazzetti più grandi che riuscivano incredibilmente a fargli varcare la soglia del sancta sanctorum.
Di solito prima del fatidico ingresso c'era stata almeno un'ora in cui i poveri compagni avevano fatto solo ed esclusivamente ciò che volevano loro, seguendole pazienti, attendendo stoici di fronte ai camerini e rispondendo con sicurezza a domande tipo: "Ma questo vestito mi ingrassa?" Dunque i malcapitati vedevano nel negozio di videogiochi una sorta di Nirvana, un luogo magico in cui le loro sofferenze sarebbero state ripagate. Niente di più sbagliato, dopo soli 60 secondi la compagna iniziava una danza rituale fatta di sbuffi, sguardi rivolti al cielo e piedi battuti nervosamente sul pavimento il cui significato era chiaro: qua dentro non c'è niente che m'interessa, quindi dobbiamo andare via subito. Il personaggio più tenero di questa carrellata è senza dubbio il genitore ignaro, quello che di videogiochi non ne capiva una cippa e mai ne capirà, che di solito si presentava alla cassa con un foglietto con su scritto (male) il nome di un videogioco e lo sguardo del cerbiatto davanti ai fari del Tir. La sua scarsa conoscenza del settore e della lingua inglese gli faceva partorire veri e propri capolavori linguistici come: "Avrebbe mica Provolutio Socce'?", "Mi servirebbe un gioco per la Microsoft Station di mio figlio" o il grande capolavoro (verificato e autenticato, non vi diciamo bugie) "Vorrei un gioco per la PerBoPer"... ovvero per l'Xbox.