40

Chi la dura la vince... forse

Difficoltà e videogiochi, un problema eterno e di complessità mostruosa: cerchiamo di capire quanto è difficile gestire la sfida e come dovrebbero muoversi gli sviluppatori in futuro

SPECIALE di Aligi Comandini   —   24/08/2016

È una discussione senza fine quella riguardante la difficoltà nei videogiochi, un litigio costante fatto di pad spezzati, urla vuote e fazioni divise principalmente tra chi vorrebbe ogni gioco per ogni persona, e chi difende a spada tratta la libertà creativa degli sviluppatori, come guidato dalla sacra luce del game design (o da quella dell'elitarismo ampolloso, una delle due). Entrambi gli schieramenti tendono però a ignorare che nell'odierna industria videoludica tutte e due le strade sono state seguite, e che si decida di affrontare l'uno o l'altro percorso c'è una sola grande verità a cui non si può sfuggire: programmare videogame è un casino abominevole. Con l'articolo di oggi vogliamo quindi affrontare l'argomento in modo un po' più analitico del solito, mettendo sul piatto qualche esempio a difesa dell'una e dell'altra visione, per dimostrare ancora una volta che il gaming è bello perché è vario, e che quando si tratta di sviluppo è impossibile ridurre i problemi a un paio di fattori discordanti. Non potremo scendere enormemente nel dettaglio (o rischieremmo di star qui una settimana), ma speriamo perlomeno di arricchire la visione d'insieme di chi è interessato all'argomento, magari prendendo qualche posizione secca qua e là.

La difficoltà nei videogiochi, un problema eterno e non facile da analizzare: noi ci proviamo

Una divisione necessaria

Meglio partire precisando che ci sono due tipi di difficoltà: una difficoltà meccanica e una difficoltà strutturale. La difficoltà meccanica è parte integrante dello scheletro di un gioco e dipende - appunto - dalle sue meccaniche, quindi sarà la prima che tratteremo. Praticamente impossibile in questa sede definire per ogni genere le caratteristiche che riguardano questa tipologia di difficoltà, pertanto è meglio prendere in esame titoli piuttosto noti per dare più facilmente un'idea concreta della cosa.

Chi la dura la vince... forse
Chi la dura la vince... forse

Prendete, ad esempio, i picchiaduro: questo genere è un perfetto modello di elevata difficoltà meccanica, specialmente se si vanno a valutare quelli nipponici più complessi. I picchiaduro sono titoli che vivono quasi esclusivamente di difficoltà meccanica, poiché costruiti al 90% sul loro sistema di combattimento e pensati per spingere un giocatore a migliorarsi costantemente, padroneggiando volta per volta le varie meccaniche. Questa filosofia porta a porre le barriere di abilità a livelli piuttosto alti per alcuni di loro, superabili solo con l'allenamento costante; è una linea di pensiero che ben si sposa col competitivo, ma rende il genere piuttosto di nicchia, proprio perché il suo fondamentale è l'ottenimento di una superiorità manifesta con la pratica. Occhio però: i puristi possono snobbare le semplificazioni di questo genere attaccandosi alle sue radici, ma anche titoli meccanicamente complessi come i picchiaduro possono diventare furbescamente stratificati e avvicinarsi a fasce maggiori di utenza. Pensate ad esempio ai giochi NetherRealm, che hanno semplificato in larga parte l'esecuzione delle mosse abbandonando mezzelune complete e dragon punch (il movimento dello Shoryuken, per chi è quasi totalmente estraneo al genere), laddove molti altri marchi hanno reso più facile l'esecuzione di combo spettacolari aumentando le finestre d'esecuzione. Si può prendere come esempio di ottima stratificazione un gioco come il recente Killer Instinct: alla base chiunque può eseguire combo spettacolari con il suo sistema di Autodouble, ma è necessario imparare alla perfezione come usare le contromosse e le combinazioni manuali per dominare agli alti livelli.

La scuola Nintendo

I picchiaduro dimostrano quanto variabile sia, dunque, la difficoltà meccanica: se persino un genere di questa complessità può ondeggiare tra il mostruosamente arduo e il facilmente approcciabile, tutti gli altri vantano uno spettro di opzioni a dir poco indescrivibile. Sparatutto? Si va dalla furiosa e intuitiva gestione dei Call of Duty alla barriera di abilità di un Unreal Tournament, passando per vie di mezzo come Overwatch, che sposa sparatorie di facile gestione e armi singole ad abilità variabili e personaggi che contrastano direttamente altri (e costringono pertanto a ragionare in modo tattico in partita).

Chi la dura la vince... forse

Action hack 'n' slash? Non addentriamoci nelle meccaniche di quelli nipponici, o rischiamo di rimanere invischiati per sempre nelle loro spire, per carità. Il punto è che la scelta di rendere un gioco incredibilmente complicato o semplicistico già dalle basi meccaniche è perfettamente giustificabile, a patto che tali basi siano ben costruite. Qui, tuttavia, ci sentiamo in dovere di prendere una posizione leggermente diversa dal "vale tutto". Vale tutto, infatti, esclusivamente se il game design è buono, e l'esempio migliore per dimostrare questo semplice assioma è una casa molto nota di nome Nintendo. Ora, vari giocatori commettono l'errore di considerare i titoli del colosso nipponico "giochi da bambini". Questa è un po' una maledizione della software house, ma deriva dal loro approccio al design dei sistemi. I giochi Nintendo sono infatti tra i più incredibilmente stratificati in commercio, al punto da poter essere apprezzati enormemente da più categorie di giocatori. Pensate ad esempio ai titoli della serie Pokémon: sono all'apparenza JRPG semplicissimi, che permettono di catturare mostriciattoli e di farne crescere la potenza battaglia dopo battaglia, conquistando palestre e sconfiggendo altri allenatori nel mentre. Questa è però solo la facciata, poiché Pokémon è una saga con statistiche nascoste non facili da gestire (IV nativi ed EV allenabili, divenuti più chiari solo con gli ultimi capitoli) e una miriade di sinergie tra i mostriciattoli e specializzazioni capaci di fare impallidire alcuni dei JRPG più complessi in circolazione, con tanto di componente competitiva.

Come una cipolla

La maggior parte del pubblico della serie nemmeno lo saprà mai. Si godrà la collezione di mostriciattoli come se nulla fosse, passeggiando sognante nel mondo virtuale dei titoli Gamefreak. Ma chi vuole andare a fondo ha questa possibilità; può buttare ore, giorni, mesi o anni di tempo nella creazione di team perfetti e combinazioni tatticamente inattaccabili, poiché il gioco è costruito per venir apprezzato anche a questi livelli.

Chi la dura la vince... forse

Questa linea di pensiero di Nintendo la si vede in quasi ogni loro prodotto principale: Super Smash Bros è un gioco godibilissimo sia da bambini che da giocatori esperti, con meccaniche avanzate e una gestione del posizionamento che dev'essere perfetta, eppure non privo di modalità per principianti dove domina il caso e arene mutevoli; l'ultimo Mario Kart è il gioco di corse per famiglie definitivo, ma provate a battere i tempi dei campioni facendo "fire hopping"... Ci vogliono capacità mostruose nel game design per arrivare a questo genere di equilibrio, eppure molti nemmeno lo considerano, bollando i titoli della casa come "per bimbi". Vedete perché è difficile gestire la difficoltà a livello meccanico nei videogame? Davanti a un pubblico che spesso e volentieri non arriva all'anima più profonda dei titoli che prova, la soluzione più comune è quella di semplificare di netto proprio la parte della difficoltà meccanica. Titoli fortemente cinematografici, meccaniche abbondantemente guidate, aiuti marcati, facilitazioni, e così via... è difficile scampare da queste scorciatoie nel mercato odierno, poiché puntando su impatto visivo e narrativa è possibile creare comunque prodotti di un certo livello anche bypassando la finezza dei sistemi. Non è una visione che condividiamo, ma la comprendiamo, se non altro per ragioni commerciali. Certo, tra titoli volutamente complicatissimi, e altri volutamente semplicissimi, riteniamo la via di mezzo della stratificazione "nintendiana" quella migliore. D'altronde non l'ha applicata solo Nintendo a dovere, nella sua storia. E se molti sviluppatori magari non sono riusciti ad arrivare a questa qualità nelle meccaniche, perlomeno hanno rattoppato buttandosi anima e corpo sulla già citata "difficoltà strutturale".

Un castello di carte, un castello di morte

Se si passa alla difficoltà strutturale le cose si fanno ancora più complicate, dopotutto. Prima parlavamo delle meccaniche attorno a cui è costruito il gioco; non abbiamo però parlato di come costruirlo una volta che le si è messe in campo (anche se il procedimento non segue necessariamente quest'ordine).

Chi la dura la vince... forse

La "struttura" di un videogame in fondo comprende di tutto: dal comportamento dei nemici base e dei boss all'architettura degli edifici, alla mutabilità delle mappe, fino addirittura a concept più alieni pensati per spingere il giocatore verso certi ragionamenti e comportamenti. Qua il fondamentale è "costruire un gioco che sia comprensibile per il giocatore e riesca a condizionarlo in qualche modo", e questo obiettivo lo si può tirare in ballo tanto per il mondo 1-1 di Super Mario Bros. quanto per Dark Souls. Non ci credete? Beh, dimostrarlo è presto detto; dopotutto entrambi i giochi portano l'utente verso certi costrutti mentali, gli inculcano a vari livelli specifici comportamenti che rendono, in seguito, più godibile l'intera esperienza. Il primo mondo di Mario permette di capire immediatamente alcuni concetti base: saltare sulla testa dei nemici è bene, toccarli lateralmente è male; i cubi colorati con punto di domanda contengono cose spesso utili; e non è il caso di saltare nei burroni. Sono concetti semplicissimi, ma pensate all'era della release e a quanto velocemente quel livello riesce a trasmetterli: è genialità pura. Dark Souls fa le cose in modo più oscuro e complicato, ma il fondamentale è lo stesso e obbliga il giocatore a capire rapidamente come muoversi, come gestire i nemici, e che è possibile arrivare in zone ben al di là delle proprie possibilità da subito. Non è intuitivo come Mario nel farlo, ma decide di attuare il tutto con lo shock puro: muori, e tanto, quindi devi imparare; una volta appreso tutto scorre con una certa naturalità (il recente Ni-Oh fa la stessa cosa, in modo persino più cattivo e brutale). Entrambe le strade sono percorribili e brillanti, ma farlo è un'impresa spesso disperata, che riesce in modo ballerino anche ad alcuni tra i migliori giochi in circolazione.

Even the mighty can fail

D'altronde se ci sono giochi che sono stati capaci di cambiare completamente la forma mentis dei loro utenti in una sorta di miracolo collettivo, come ad esempio i Monkey Island - che hanno spinto tantissimi giocatori ad abbandonare la logica comune e ad andarci pesante col pensiero laterale - molti hanno invece dovuto sottostare alla suddivisione delle difficoltà, che rientra sempre nell'insieme della "difficoltà strutturale".

Chi la dura la vince... forse

Persino gioconi come Divinity Original Sin hanno fatto dei passi falsi nel limitare il livello di sfida per poter inserire una modalità "facile", perché laddove le battaglie del gioco si facevano meno impegnative, i puzzle complessi rimanevano invariati, creando una rottura a livello di design piuttosto evidente. Quando si deve rimaneggiare un intero sistema in base a questi livelli di difficoltà è pur sempre necessario bilanciare l'intero prodotto e il tempo spesso non basta, una situazione che provoca picchi ingiustificabili in alcuni casi e momenti a prova di pollice opponibile in altri. Gli sbilanciamenti si notano in così tanti giochi da spingerci a favorire la difficoltà fissa, poiché perlomeno permette di costruire un prodotto solido attorno a una singola visione d'insieme (sul serio, crediamo di avervi dato un'idea di quanti fattori sono coinvolti, e ne abbiamo descritti solo una minima parte finora). Certo, qui va a infilarsi la solita discussione sulla necessità di rendere godibile per qualunque fascia di utenti i giochi, e la comprendiamo, ma siamo comunque critici poiché per noi il game design giova troppo di una difficoltà sola per poter supportare ugualmente entrambi i punti di vista. Schieramento a parte, ci sono peraltro stati alcuni interessanti esperimenti, primo fra tutti God Hand, che aveva introdotto un curioso sistema di difficoltà capace di fondere elementi meccanici e strutturali. In pratica, meglio si giocava al gioco, maggiore diventava il livello di sfida durante la partita. Non era un sistema perfetto (cresceva forse troppo rapidamente, con scatti netti), ma era geniale e potrebbe essere riapplicato degnamente da qualche designer in futuro. Solo un piccolo problema: anche God Hand si è beccato schiaffoni da utenza e critica, nonostante un gameplay notevolissimo e le ottime idee. E qua si torna ancora una volta al problema di fondo: "ce li meritiamo davvero giochi dalla difficoltà perfettamente calcolata, se nemmeno riusciamo a rendercene conto?" Ci piacerebbe rispondere senza esitazioni con un sonoro sì, ma l'industria pare muoversi nella direzione opposta a quella che vorremmo.