Per chi ha qualche anno sulle spalle e fa parte di quella fascia di videogiocatori vecchia scuola, ben si ricorda com'era giocare vent'anni fa e di come progressivamente il videogame siano diventati da passatempo di nicchia a vero e proprio fenomeno globale. Eppure, nonostante il settore continui a progredire e ad accogliere nuovi appassionati, noi videogiocatori siamo circondati da gente a cui i videogiochi non piacciono. Nello speciale di oggi partiremo da un articolo di Gamesindustry.biz ribaltandone totalmente il punto di vista; siamo curiosi di sapere a fine articolo con quale delle due opinioni concorderete.
È giusto creare videogiochi per coloro che i videogiochi proprio non li amano?
Cosa non piace?
L'articolo in questione è stato scritto da Brie Code, sviluppatrice che ha lavorato con Relic e Ubisoft rispettivamente per Company of Heroes, Assassin's Creed e Child of Light e che ha deciso poi di fondare Tru Luv Media, una compagnia che sviluppa i suoi videogiochi insieme a persone che non amano i videogiochi. L'articolo della sviluppatrice infatti ruota attorno all'ossessionante questione del perché a certe persone i videogiochi non piacciono e che cosa non piace di un videogioco.
Prima di analizzare nel dettaglio l'articolo, a questa domanda c'è certamente un risposta tanto semplice quanto visibile nella nostra quotidianità italiana: i videogiochi, ancora oggi, vengono percepiti, con un'abbondante dose di ignoranza, "roba per bambini", "perdite di tempo" e ancora (la migliore tra tutte) "passatempi nocivi". Un modo di vedere la cosa ancora ben radicato nella nostra mentalità e tristemente alimentato da servizi d'informazione e stampa generalista poco informata; col tempo abbiamo imparato che con questa gente non si ragiona e che forse non ne vale nemmeno la pena anche perché, anche se non è la regola, molto spesso parliamo di persone arroccate sulle proprie convinzioni per questioni anagrafiche e che nel tempo non sono state al passo con i tempi... senza offesa. Ma che dire di tutti gli altri? Leggendo il lungo articolo della Code emerge che le motivazioni più comuni che i suoi amici non amanti di videogiochi le danno sono essenzialmente tre: la prima è di natura molto superficiale perché la convinzione più diffusa tra i non-giocatori è che i videogiochi manchino di profondità, perché "a differenza di un libro/film/podcast, con i videogiochi non imparo niente o cambio come persona". Secondariamente molti non si sentono adeguatamente rappresentati, pare siano tante le donne o membri appartenenti a diverse etnie a sentirsi offesi, insultati e non rappresentati all'interno di un videogioco. Terzo ed ultimo fattore, i videogiochi non contengono nessun tipo di riferimento culturale che possa avere rilevanza nella società, "perché dovrei interessarmi ad una cosa che non mi interessa?"
Videogiochi per tutti...
Nell'articolo poi vengono raccontati alcuni aneddoti sugli amici della Code e di come nessuno abbia apprezzato i titoli da lei consigliati. Alla cugina Kristina, racconta la sviluppatrice, è stato consigliato dapprima Journey e successivamente Skyrim; la cugina, molto restia nei confronti dei videogiochi prima non porta a termine Journey sostenendo che "non è interessata ad un gioco in cui possa essere attaccata da dei mostri" (facendo rifermento agli ultimi momenti del gioco) mentre con Skyrim mette da parte il poco apprezzamento per il fantasy immedesimandosi con il suo personaggio tanto da scoppiare in lacrime quando perde parte dei salvataggi del gioco, abbandonandolo successivamente. Anche agli amici viene fatto provare Skyrim, apprezzato per la profondità delle dinamiche ma bocciato per l'ambientazione fantasy mentre Child of Light (allo sviluppo del quale partecipa la stessa Code) riscuote successo dal punto di vista artistico ma rimane inaccessibile agli amici per la narrazione troppo lineare e i comandi complessi. Per questo motivo la sviluppatrice sostiene che è necessario creare prodotti che tengano in considerazione questi aspetti fondamentali così da rendere progressivamente sempre più appetibile il mercato dei videogiochi al pubblico di massa, un fattore che contribuisce positivamente, secondo la Code, non solo a livello economico ma anche all'evoluzione stessa del videogioco, rendendolo lo strumento di comunicazione privilegiato dei prossimi anni. Una visione molto positiva, dove l'abbracciare costantemente nuovo pubblico è percepito come un benevolo auspicio, mentre in realtà potrebbe essere la più grande maledizione del mercato.
...o solo per i giocatori?
Maledizione, ovviamente, per noi che siamo già videogiocatori. Potreste non essere tutti d'accordo ma sono molti i giocatori convinti che il progressivo ingrandimento del bacino d'utenza stia progressivamente portando ad uno smarrimento dell'industria poiché l'obiettivo non è più creare un gioco ben fatto, ma più importante è creare un gioco che sia accessibile. E non parliamo di accessibilità intesa come la configurazione diversa dei comandi per aiutare giocatori disabili, parliamo proprio di un gioco che può essere fruito e goduto da chiunque con tutti gli svantaggi che questo comporta: storie lineari, dinamiche e level design semplificati, giochi visivamente accattivanti ma poveri di quella sostanza essenziale chiamata gameplay di cui tutti ci nutriamo. Inoltre questo si riscontra nel mercato tripla A e non di certo nello sviluppo indipendente, riconducendo questo fenomeno della semplificazione ad una questione meramente economica. Ipotizziamo però per assurdo che non ci sia nessuna finalità di lucro e che ci sia davvero l'intenzione di creare progressivamente prodotti fatti per i non videogiocatori... a quale scopo? Badate bene, qui non si vuole fare un discorso discriminatorio o arrivare ad offendere chi non ama i videogiochi, ma francamente il problema è un non-problema. Se i videogiochi non piacciono per quale motivo qualcuno dovrebbe spendere tempo e denaro per creare un videogioco che possa piacere a quelle persone? Anche perché nessuno è costretto a videogiocare e un "no, grazie" è sufficiente per escluderti dal target; ovviamente è una scelta del singolo sviluppatore decidere chi sono le persone in target e muoversi di conseguenza nello sviluppo, come è stata proprio una scelta legittima quella della Code di fondare la sua Tru Luv Media, ma non è certo il punto d'arrivo a cui tutti devono mirare. Sappiamo poi che è sbagliato fare congetture su esempi lontani e non provati personalmente, come gli aneddoti letti dell'articolo, ma non possiamo sottrarci nel fare qualche considerazione sulla cerchia di amicizie della Code, videoludicamente parlando, ovviamente. Una persona che non riesce a portare a termine un titolo come Journey, che dura appena due ore e dal significato abbastanza comprensibile, motivando con un "non sono interessata a farmi rincorre da un serpente che vuole uccidermi", perdonateci se siamo bruschi, ma dimostra chiaramente che non gliene ne frega assolutamente nulla dei videogiochi. Ritornando a quelle tre motivazioni riportate nel paragrafo precedente, ovvero la mancanza profondità e un'inadeguata rappresentazione di persone e questioni sociali, fanno chiaramente capire che le stesse persone che lamentano questi problemi sono allo stesso tempo troppo pigre o ottuse (o entrambe) da non riuscire a vedere il contrario.
Un videogioco non ha profondità? Non può insegnare nulla o cambiare una persona? Se si arriva a sostenere ciò probabilmente non si è abbastanza documentati sull'oggetto di discussione e il fatto di non essere informati sull'argomento fa capire che forse non c'è interesse ad esserlo, che per carità, mica è un crimine, ma in questo caso bisognerebbe almeno avere il buon gusto di non esporti. C'è anche da tenere in considerazione poi il retaggio dei videogiochi, che prima di essere strumenti di comunicazione e oggetti di sperimentazioni interattive erano dei semplici prodotti d'intrattenimento, quindi perché un videogame deve per forza soddisfare sempre determinati standard? Anche qui è una sacrosante scelta dello sviluppatore decidere come creare il suo gioco e su quali elementi può puntare; non è detto quindi, al contrario, che tutti i videogiochi devono per forza insegnare o comunicare qualcosa di profondo e hanno tutto il diritto di essere prodotti d'intrattenimento allo stato puro. Quello della mancata rappresentazione è anche qui un problema che non sussiste perché solitamente quando c'è un'opinione tendenziosa si riesce a vedere discriminazione e problemi anche laddove questi non ci sono, una lezione di vita a cui assistiamo quotidianamente sui social; anche perché come detto svariate volte si tratta di opere di finzione, motivo per cui questo problema della rappresentazione discriminante e offensiva non regge e vale tanto per i videogiochi quanto per libri, cinema, fumetti, eccetera... Insomma, non c'è niente di male nel non apprezzare un videogioco e nessuno obbliga chi non è interessato ad appassionarsene con la coercizione: è così sbagliato chiedere dei videogiochi sviluppati per i giocatori... e basta?