L'importanza del Giappone per tutto ciò che è il gaming moderno è immensa. Se i videogiochi oggi sono ciò che conosciamo, lo dobbiamo in primo luogo alla Terra del Sol Levante e alla genialità dei suoi sviluppatori, capaci di risollevare l'intera industria dopo la mostruosa crisi degli anni '80 e di delineare con forza incredibile le basi di quasi tutti i generi oggi conosciuti.
Per quanto ricco dal punto di vista creativo, però, il Giappone è anche da sempre un mondo a parte, una nazione contraddistinta da tendenze estremamente conservatrici che ne hanno segnato storia e sviluppo. Passati gli anni d'oro dei videogame, ovviamente, il ritorno di fiamma derivante da una mentalità eccessivamente orientata verso i giocatori "di casa" era inevitabile. In pratica, dopo un lungo periodo trascorso a tracciare la strada per tutti gli altri, il Giappone si è ritrovato improvvisamente a inseguire, bloccato da barriere autoimposte e da stilemi spaventosamente restrittivi, capaci di annichilire quasi del tutto l'evoluzione tecnologica e creativa delle sue case di sviluppo. Ci sono voluti anni per recuperare... anni di prodotti mediocri e deludenti, tenuti a galla da un mercato interno fidelizzato ormai a mode aliene per il mercato occidentale, e da qualche piccola voce fuori dal coro in grado di dimostrare che la scintilla nipponica era ancora viva. Un'attesa ben ripagata dal ritorno in grande stile di sviluppatori che erano ormai considerati da molti irrecuperabili (Capcom, il Team Ninja), dalla ripresa di nomi che stavano attraversando un periodo non luminosissimo (Platinum Games, Atlus) e da una poderosa dimostrazione di bravura che ha ancora una volta provato come, dato il giusto tempo per raggruppare i pensieri e studiare la concorrenza, nessuno fa videogiochi come li fanno i giapponesi (Nintendo). Eppure per tornare a questo livello stavolta l'ispirazione non è arrivata da qualche musa misteriosa, bensì da "fuori": per ridiventare grande il Giappone ha imitato il mercato occidentale, rielaborandone le caratteristiche al meglio. Oggi cerchiamo di capire nel dettaglio cos'è accaduto studiando alcuni dei migliori progetti usciti nel periodo recente, e di vedere perché si tratta di qualcosa di più della banale emulazione.
Videogiochi giapponesi, influenze occidentali, e cambiamenti necessari: ne parliamo nel nostro speciale!
Influenze più che stilistiche
Partiamo dall'elefante nella stanza, ovvero le influenze stilistiche. Inizialmente, forti delle loro basi, i programmatori nipponici traevano ispirazione più dalla cinematografia e dalla narrativa occidentali che dai videogiochi. Katsura Hashino (designer di Persona 3 e 4) ha affermato più volte di esser stato influenzato molto da Lynch mentre Hideaki Itsuno (a cui si devono Devil May Cry 4 e Dragon's Dogma) si è rifatto non poco a libri fantasy americani ed europei nelle sue opere, e il fantasy dark è un'influenza che non può venir ignorata nell'importantissima serie Souls di Miyazaki.
La recente apertura del gaming nipponico nei confronti del mercato globale (almeno per quanto riguarda i progetti principali, perché una forte enfasi sul mobile e su certi prodotti per noi invendibili resta da quelle parti) tuttavia coincide almeno in parte con due avvenimenti: il cambio di strategia di Capcom voluto fortemente da Keiji Inafune, e il successo proprio dei Souls nella precedente generazione. Si tratta di due momenti particolarmente significativi per la loro duplice valenza, poiché rappresentano a tutti gli effetti una via giusta e intelligente di approcciarsi al problema, e una strada frettolosa e incapace di comprendere le proprie risorse, nonostante entrambe alla base fossero più che motivate. Prendiamo in primis la strada errata, ovvero quella di Inafune: una sorta di sbottata improvvisa con cui il noto Keiji affermò anni fa che il Giappone era "cinque anni indietro rispetto agli occidentali" e che era necessario adattarsi affidando alcuni marchi a sviluppatori al di fuori dall'isola e imitando la concorrenza globale. Da una parte l'immobilità del mercato a quei tempi dava ragione a Inafune, ma la sua visione non solo andò a poggiare su sviluppatori sulle cui capacità era il caso di farsi più di qualche domanda (gli Spark Unlimited? Sul serio?) ma dimenticò del tutto la bontà dei prodotti di casa, per inseguire una globalizzazione impersonale che sul breve periodo fece malissimo a Capcom, per portare risultati positivi solo dopo molti anni (e sotto la guida di persone meno cieche del buon Keiji). From Software, seppur in parte per puro caso (pare che i piani alti credessero poco nel prototipo di Demon's Souls e avessero lasciato carta bianca a Miyazaki solo perché ormai "la frittata era fatta"), decisero invece di mettere in campo una visione occidentale del Gioco di Ruolo action, ma squisitamente trasformata dalla sensibilità giapponese, dalla maniacale attenzione al dettaglio e alla strutturazione delle mappe di Miyazaki, e da un senso della scoperta quasi "zeldiano" rafforzato da una difficoltà da dungeon crawler vecchio stile (anche la serie King's Field, sempre di From, era non poco ispirata da titoli occidentali di quella tipologia). Una perfetta fusione tra mentalità diverse, insomma, che pendeva più dalla parte del Giappone.
Il motivo
Perché la seconda strada è quella più giusta? Per capirlo bisogna tornare all'alienazione tutta giapponese da quello che è il videogame occidentale tipico. Gli sparatutto da console, i giochi incentrati sulla narrativa e i titoloni open world non hanno mai attecchito del tutto in terra nipponica.
Se una software house giapponese vuole davvero evolversi, dunque, deve riadattare queste forme di videogioco alla sensibilità della sua popolazione, migliorarle e ampliarle, il tutto però mantenendo una propria identità che per il giocatore nipponico è più importante di qualunque altra cosa. I Souls sono un ottimo esempio, ma hanno rappresentato solo l'inizio: guardate ad esempio i cambiamenti apportati recentemente a una serie storica di JRPG come Final Fantasy, dove il capitolo XV non solo ha abbracciato l'open world, ma è riuscito a porre delle solide fondamenta per episodi futuri (non senza svariati problemi, ma risollevando comunque un nome che era decaduto pesantemente). Influenze del genere si erano peraltro già viste in Final Fantasy XII - che si rifaceva parzialmente agli MMO (scelta non furbissima, ma comunque a tratti interessante e capace di mettere in campo alcune innovazioni poi adottate da molti altri JRPG) - hanno portato allo sviluppo di giochi come Xenoblade Chronicles X (anche questo con una visione "difettosa" dell'open world, ma comunque di ottima qualità) e sembra siano andate a toccare persino serie fino ad oggi immacolate come Dragon Quest - che con l'ultimo capitolo si è finalmente distanziato da strutture viste e straviste, sempre che non si tratti di un fuoco di paglia. Il culmine di questi esperimenti, a volerla dir tutta, lo si può vedere nel nuovo The Legend of Zelda: un gioco che ha saputo applicare il culto del gameplay dei giapponesi all'estensione della struttura open world, con una cura per il dettaglio, una libertà d'azione, e un uso dell'intelligenza artificiale brillanti, capaci di rendere la semplice esplorazione un'esperienza valida quanto l'avanzamento della storia principale. Osservare questo genere di giochi e la loro evoluzione è importantissimo, perché dimostra comunque una notevole capacità di guardarsi attorno da parte di queste squadre di sviluppatori, una volontà di imparare dagli errori fatti, e una intelligenza tale da poter portare al sorpasso dopo anni di crisi nera.
L’orgoglio e l’onore
La scelta di rifarsi ad altri progetti è anche quella che ha ridato vita al Team Ninja con NiOh - il cui Loot System è chiaramente preso di peso dai Diablo-like e da altri titoli simili, pur mantenendo un cuore pulsante vicino ai Ninja Gaiden - e ha riportato sulla retta via la serie Resident Evil, che Capcom ha avuto il coraggio di "occidentalizzare" senza però perdere alcuni elementi di fondo in grado di far mantenere al gioco un forte carisma.
Attenzione però, perché, nonostante questa apertura mentale sia sicuramente positiva, il Giappone resta una realtà unica, che riesce ancora a sfornare capolavori pur mantenendosi attaccatissima ai suoi valori. NieR: Automata ha davvero ben poche influenze esterne, sia dal punto di vista narrativo che del gameplay (Danmaku più action hack 'n' slash alla Platinum? Giappone puro baby), e Persona 5 è una dimostrazione gargantuesca di quanto il mantenimento di una struttura classica possa ancora dire la propria nel mercato odierno. In parole povere, bene non avanzare col paraocchi ma parliamo pur sempre di una nazione che i videogiochi li ha formati alla nascita, e che può tranquillamente percorrere in parallelo sia la via del "mantenimento" che quella dell'evoluzione, senza che queste debbano obbligatoriamente scontrarsi. Per farlo è necessario puntare alla qualità, aprire i propri orizzonti commerciali evitando di sedersi troppo sugli allori e di dedicare i propri talenti a nicchie amate solo sul suolo nipponico, e - cosa da non sottovalutare - valorizzare un po' di più il mercato indipendente, che nella terra dei samurai è minuscolo ma molto talentuoso (da lì sono uscite meraviglie come La-Mulana e Cave Story, per dire). Dunque, ora che è ripartito ed è tornato alle redini dell'industria globale con una serie di videogame memorabili, il Giappone deve mantenere il controllo del destriero con tutta la sua forza, non ricascare nei comportamenti che hanno portato i suoi sviluppatori a bloccarsi per anni, e valorizzare il pubblico al di fuori della propria fortezza. Perché l'industria dei videogiochi ha bisogno che questa terra rimanga grande, e così come lei è rinata guardando in parte all'occidente, l'occidente avrà sempre bisogno di osservare l'incredibile cura per il gameplay dei giapponesi per non perdersi a sua volta.