I giochi a servizio come Anthem, o game as a service in inglese (abbreviato in GaaS), si sono rivelati un trend assai redditizio per i grandi publisher che, sedotti dal guadagno costante che assicura questo modello di vendita, li privilegiano sempre più rispetto ai giochi più classici, pensati con un inizio ed una fine.
Un normale videogioco viene infatti sviluppato e venduto con l'obiettivo di generare profitto in una finestra temporale limitata, che inizia il giorno di lancio e si protrae nei mesi successivi. Questo modello permette con un costante riciclo di titoli nella libreria di un giocatore che: compra, gioca (anche molto), finisce e compra un altro gioco.
Il gioco a servizio invece punta a creare nuovi contenuti sempre per lo stesso titolo con l'obiettivo non di essere il prossimo gioco che l'utenza acquisterà ma il gioco su cui l'utenza si fermerà: più tempo un giocatore investe in un GaaS, maggiori sono le probabilità che prima o poi vengano investiti anche dei soldi. La concorrenza però diventa un gioco al massacro perché i giochi a servizio sono pensati per non essere affiancati con altri giochi a servizio, al massimo li si può intervallare a titoli brevi con cui spezzare la routine. È un grande macchina macina soldi che però si mangia anche molte risorse in termini di sviluppo; un Gaas costringe il suo team di sviluppo ad una pressione continua limitandone la creatività (perché una volta decisa l'impronta del gioco è necessario attenersi alla linea stabilita). In tutto questo vengono anche soffocati i team minori che, non disponendo di un'infrastruttura adeguata allo sviluppo di GaaS sono automaticamente esclusi dalla concorrenza. I giochi a servizio poi sono titoli pensati per la massa, dovendone così incontrare i gusti.
Il problema però non è il pubblico di massa ma come i publisher vogliono gestirlo, insieme ai giocatori più classici. La crescita del mercato ha portato infatti anche alla quotazione in borsa di molti publisher che ora hanno come scopo principale quello di rassicurare gli azionisti. Per farlo quindi bisogna trovare soluzioni rapide ed efficaci per dimostrare che tutto va bene. In tal senso il gioco a servizio è perfetto perché permette di fare cassa costantemente ma nel lungo periodo rischia di minare silenziosamente il mercato stesso. Questo perché un titolo "normale" (con un inizio e una fine) non venderà mai come un gioco a servizio nella sua finestra vitale di lancio, perdendo automaticamente appeal per i publisher.
Molti hanno ridotto questo ragionamento a "la morte del sigle player" ma non si tratta solo di quello, è un discorso più ampio e che riguarda l'intera sostenibilità del mercato. Al fianco di questi enormi mostri che sono i giochi a servizio dovrebbe esserci un ventaglio di opzioni variegate, magari offerta da quei team di sviluppo minori che non hanno altrimenti possibilità di emergere. Chiaramente questo discorso scorre parallelo ad un binario chiamato ipocrisia perché è chiaro che se un gioco piace lo si gioca, indipendentemente dal fatto che sia un gioco a servizio o più classico. Rimane il fatto che un modello di business che fossilizza il tempo del giocatore su un unico prodotto invece di favorire un riciclo continuo di titoli, nel lungo termine non può portare benefici.
Nel nuovo episodio di Non È Roba da Donne, Giordana approfondisce l'argomento includendo nel discorso anche Anthem e il destino che aspetta la nuova creatura di Bioware.