Nel corso degli ultimi giorni si è attivato il rumoroso motore del marketing attorno a Final Fantasy VII Rebirth. Inizialmente lo State of Play ha accolto un lungo trailer volenteroso di svelare gran parte delle ambientazioni presenti nel secondo capitolo del remake, aprendo uno spiraglio sui nuovi personaggi del cast e suggerendo anche qualche aggiunta frizzante, come per esempio una nuova Weapon che sembra determinata a indossare le vesti del classico superboss opzionale. Si tratta di uno fra i migliori trailer mai confezionati, un filmato che già di per sé si era dimostrato sufficiente a riaccendere la fiamma della passione. Tuttavia nei giorni successivi, complice anche il Tokyo Game Show, gli sviluppatori della Creative Business Unit I hanno iniziato con un po' troppo zelo a condividere tonnellate di informazioni aggiuntive: tutti i minigiochi, intere sezioni di gameplay dedicate a determinati personaggi, l'esatto numero di località presenti sulla mappa e tantissimi altri dettagli.
Si tratta di una fattispecie che si era già verificata dalle parti di Final Fantasy XVI: eoni prima del lancio eravamo già a conoscenza del numero di Eikon presenti nell'opera, del particolare ruolo ricoperto da Ifrit, dell'identità dei protagonisti, conoscevamo vita morte e miracoli del mondo di Valisthea e di quasi tutte le entità che l'avrebbero popolato, avvicinando di fatto il fattore sorpresa allo zero assoluto. Insomma, sembra che Square Enix - e con lei tantissimi altri publisher - negli ultimi tempi stia snocciolando con un po' troppa facilità il contenuto dei propri progetti, conservando pochissimi segreti per l'istante della pubblicazione, abbassando inevitabilmente il coefficiente di meraviglia che solitamente rende unico l'approccio a un videogioco.
Esistono infatti produzioni che tentano con ogni mezzo necessario di fare l'esatto opposto, prodigandosi in grandi sforzi pur di tener nascosta la propria anima, magari fissando anche qualche ingombrante restrizione nelle sedi delle recensioni con l'unico fine di preservare l'esperienza degli appassionati. Prendiamo per esempio God of War di Santa Monica Studio: se Sony avesse scelto di mostrare le Lame del Caos in azione per stuzzicare la fantasia degli appassionati e convincere i veterani, uno degli istanti più significativi nell'avventura di Kratos sarebbe stato completamente svuotato del suo significato unico.
Si parla a tutti gli effetti di spoiler che le software house scelgono consapevolmente di infliggere al pubblico con lo scopo d'ingolosirlo, spesso dimenticando di tenere in considerazione quanto possa essere significativo l'impatto di una pura e semplice sorpresa. I videogiochi stanno facendo vedere troppo prima dell'uscita?
Non ti faccio vedere niente
La guerra intestina che vede contrapposti creativi e reparti marketing può vantare radici molto antiche, con la grande differenza che, anni fa, non esistevano dirette in streaming, video su YouTube e casse di risonanza digitali volenterose di condividere qualunque informazione: tutto si riduceva a un paio di trailer, qualche immagine e i provati della stampa. Una delle situazioni più interessanti si verificò poco prima della pubblicazione di Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty, quando in seguito ai maestosi trailer con protagonista Solid Snake mostrati all'E3 del 2000, Konami decise di allegare una demo dell'opera a Zone of the Enders, gonfiando enormemente le vendite del titolo dedicato ai mech. Il secondo capitolo della saga di Hideo Kojima era di gran lunga il videogioco più atteso dell'epoca: i tantissimi giocatori che scelsero di acquistare "ZOE" per mettere mano alla demo finirono per scatenare quello che tutt'ora è ricordato come uno fra i primi e più violenti "backlash" del settore.
Il vero protagonista si sarebbe infatti rivelato il giovane Raiden, deludendo la maggior parte dei conservatori che si aspettavano un sequel decisamente più tradizionale. Se da una parte Hideo Kojima riuscì a mantenere il suo più grande segreto fino al momento della pubblicazione, dall'altra il medium ne uscì fortemente scottato e iniziò a comunicare sempre con maggiore chiarezza il contenuto dei prodotti in arrivo. Sorprendere i giocatori attraverso scelte autoriali e meccaniche inaspettate, oppure tentare di convincerli a comprare comunicando di tutto e di più? Questo dilemma ha caratterizzato l'interezza delle decadi successive, cambiando profondamente tanto il modo in cui vengono presentate quanto soprattutto quello in cui sono recepite le opere.
Sony Interactive Entertainment è una delle case più attente alla preservazione dell'esperienza: nel caso di God of War del 2018 ha deciso di non mostrare praticamente nulla, tenendo nascosti gli scontri con i boss, le Lame del Caos e tantissimi altri ingredienti della ricetta, assumendosi un rischio enorme che fu infine ripagato dall'ottenimento del premio per il Game of the Year. La stessa circostanza si è ripetuta nel caso di The Last of Us Parte 2 che, al netto dei pesantissimi leak, ha scelto di mantenere segreta praticamente metà del gioco con il fine di sorprendere - e talvolta facendo anche adirare - gli appassionati. Ciò è accaduto anche in videogiochi di minore richiamo, come Returnal o il pur grande Death Stranding di Kojima Productions, che hanno fatto capolino attraverso trailer estremamente criptici alzando le barricate fino al momento del lancio, per certi versi anche rimettendoci in termini di diffusione.
Uno studio che storicamente adora giocare con il vedo non vedo è Rockstar Games, che di volta in volta presenta pochi trailer difficili da analizzare: di solito mostra al massimo un paio di filmati prima di immettere i prodotti sul mercato, proprio come successo nel caso di GTA V, ma soprattutto a Red Dead Redemption 2. Al momento dell'annuncio, quest'ultimo era stato fortemente criticato a causa del cambiamento di protagonista: allora si accusava Arthur Morgan di non valere un calzino di John Marston, ed è servita l'esperienza completa per convincere i detrattori a ricredersi. Questo modus operandi ha caratterizzato a lungo anche l'operato di Bethesda Softworks: nel caso di Skyrim, per esempio, furono diffusi giusto due striminziti trailer cinematografici e una minuta demo prima della pubblicazione, fattore che portò gli appassionati a rimanere estremamente sorpresi dalla grezza mole di città e attività presenti nella regione nord di Tamriel.
Ti faccio vedere tutto, forse anche troppo
Nel suo approccio industriale tipicamente giapponese, vicino alle regole non scritte imposte da Toyota, Square Enix non ha mai esitato a mostrare fin troppo agli appassionati: sta succedendo con Final Fantasy 7 Rebirth, che è difficile possa nascondere qualche sorpresa se non sul fronte della narrativa; è successo dalle parti di Final Fantasy 16, che ha accolto orde di giocatori che conoscevano quasi tutto, dal numero di Eikon alle identità dei Dominanti, dall'architettura delle città all'intera mappa del mondo di Valisthea; è una macchina che si riattiva tradizionalmente anche sulle sponde di Final Fantasy 14, che all'alba di ciascuna espansione produce ore e ore di contenuti video e interviste volte a svelare ogni singolo dettaglio dell'avventura che attende il pubblico. L'atto di tenere nascosti uno o più elementi delle produzioni sembra visto quasi come un inganno dalla casa, che da qualche anno ha iniziato ad agire con troppa trasparenza.
Un caso eclatante di questa fattispecie si è verificato con Cyberpunk 2077, protagonista di davvero tanti appuntamenti antecedenti la pubblicazione nei quali gli sviluppatori di CD Projekt RED hanno svelato con fin troppo zelo l'anima dell'esperienza, al punto tale da analizzare anche meccaniche che non avrebbero mai visto luce nel prodotto finito. Si è parlato di precisi stili d'abbigliamento, di gang che avrebbero dovuto portare un peso concreto nell'economia di gioco, della possibilità di scalare i palazzi, di intrufolarsi fisicamente nei network dei nemici, di utilizzare il sistema di trasporto pubblico in tempo reale, e via dicendo. Verrebbe quasi da chiedersi come sarebbe stata accolta l'avventura a Night City se fosse stata presentata a scatola chiusa, magari dopo giusto una coppia di trailer in stile Rockstar Games, senza aggiungere tonnellate di carne sul fuoco.
È evidente che tali scelte siano strettamente legate alla crescente importanza dei preordini che ha caratterizzato la storia recente dei videogiochi, dal momento che l'industria AAA deve assolutamente ripianare l'investimento iniziale. Ormai i cosiddetti "deep dive" sono un ingranaggio fondamentale nei sistemi di marketing: basti pensare a serie quali Pokémon, che vogliono svelare con largo anticipo tutte le novità delle meccaniche e dell'ambientazione. Il più recente a cui abbiamo assistito è stato quello dedicato a Starfield, volenteroso di introdurre i giocatori a moltissime sfaccettature dell'esperienza, come per esempio tutte le splendide città principali e la presenza di poteri sovrannaturali, privando al contempo gli appassionati di alcune piccole sorprese.
Quanto è importante l'effetto sorpresa?
Immaginiamo un mondo nel quale in Final Fantasy 16 nessuno fosse stato a conoscenza del particolare ruolo ricoperto da Ifrit, della presenza di altri Eikon e dell'estetica dei panorami di Valisthea. Nel quale in Starfield si fosse atterrati di fronte ai cancelli di città quali Neon o Akila City senza la benché minima idea della loro esistenza. Un mondo in cui, prima di calcare le strade di Night City, l'unica cosa nota fosse stata l'ambientazione, la presenza di Johnny Silverhand e l'essenza da avventura in prima persona. Quanto sarebbe cambiato l'impatto con determinate sequenze di tali videogiochi?
Il fattore sorpresa ha sempre svolto un ruolo determinante in tonnellate di produzioni del tutto diverse tra loro. Nel 2000, ad esempio, Pokémon Oro e Argento hanno colpito gli appassionati svelando la presenza dell'intera regione di Kanto, ovvero l'ambientazione del capitolo precedente, protagonista di una ricchissima sezione di fine gioco, praticamente metà dell'avventura effettiva. Abbiamo menzionato più volte l'impatto dell'ottenimento delle Lame del Caos nel redivivo God of War, una sequenza che da sola regge praticamente l'interezza della produzione, ma si potrebbe parlare anche della battaglia con lo Straniero oppure della possibilità di cambiare il mondo da esplorare. Di recente, anche The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom è riuscito a tener celata molto a lungo l'esistenza stessa del sottosuolo di Hyrule, scegliendo di concentrare la comunicazione esclusivamente sulle isole celesti.
Ci sono poi i casi più eclatanti, su tutti quello di Bloodborne, che durante l'intero periodo antecedente la pubblicazione ha mantenuto nascosti i Grandi Esseri e l'ispirazione lovecraftiana focalizzandosi invece esclusivamente sulle belve, regalando agli appassionati un viaggio sostanzialmente irripetibile. Anche Elden Ring, per rimanere nell'orbita di FromSoftware, si è limitato a mettere in scena giusto un paio delle prime regioni dell'immenso Interregno, accogliendo poi i giocatori in un costrutto virtuale le cui effettive dimensioni superavano ogni più rosea aspettativa. Abbiamo già menzionato il ruolo di Abby in The Last of Us Parte 2, nonché quello di Raiden nel secondo capitolo Metal Gear Solid, ulteriori testimonianze dell'impatto che anche un singolo segreto può avere sull'assimilazione dei prodotti.
Senza dubbio quello di cercare il corretto equilibrio fra la generazione dell'hype e la preservazione dell'esperienza è uno dei compiti più difficili che i moderni produttori di videogiochi si trovano a dover affrontare. A volte è sufficiente un singolo elemento, una piccolissima sequenza di gameplay per cambiare profondamente la percezione di un'intera opera: vivendola e conoscendola in anticipo, l'incantesimo rischia di spezzarsi con estrema facilità.