Analizzando la classifica dei videogiochi più giocati al mondo emerge un dato più che mai eloquente: l'intera Top 10 è occupata da titoli figli della formula free-to-play. Installare, eseguire, giocare: ormai viviamo e respiriamo un mercato nel quale essere videogiocatori, per miliardi di utenti, significa non dover spendere nemmeno un centesimo. Un trend, questo, che sarebbe stato a dir poco imprevedibile durante la grande rivoluzione dei '90, quando il mercato dei videogiochi - sfuggito alla crisi che l'aveva quasi annichilito - stava colorando le case di mezzo mondo con le prime generazioni di console.
Nell'arco di poco meno di trent'anni persino i più imponenti colossi del settore hanno dovuto abbracciare la nuova corrente: marchi come Call of Duty, in passato in grado di accarezzare i 70 milioni di copie vendute a prezzo pieno, oggi scelgono di consegnare gratuitamente esperienze costate una fortuna nelle mani degli appassionati; e facendo ciò, spesso e volentieri guadagnano come o più di prima. Come si è arrivati fino a questo punto, e quale sarà il sentiero che definirà il futuro dell'industria?
Riavvolgiamo il nastro, torniamo nella Corea del Sud del 1999, e analizziamo le radici di una filosofia - quella dei videogiochi free-to-play - che sembra destinata a essere l'unico futuro dei videogiochi con una stretta sempre più salda.
Benvenuti nel mondo free-to-play
Anche se siamo portati a pensare all'emersione della formula free-to-play come a un fenomeno recente, la verità è che le sue radici risalgono alla seconda età dell'oro dell'industria, quando console, computer e videogiochi stavano effettuando una massiccia incursione nel sottobosco della cultura di massa. È l'ottobre del 1999 e siamo a Seul, in Corea: una piccola impresa fondata quattro anni prima - la Nexon - sta lavorando a una coppia di software che avrebbero irrimediabilmente cambiato il nostro modo di intendere i videogiochi.
Uno si chiama QuizQuiz, è sviluppato dal tecnico Lee Seung chan, ed è probabilmente il primo titolo free-to-play di tutti i tempi. Si tratta di un MMO che mescola educazione e intrattenimento, sfruttando un design d'ispirazione anime per radunare una comunità volenterosa di sfidarsi a colpi di domande, risposte e mini-giochi. La sua particolarità? L'intero modello economico si basa su un sistema di microtransazioni che consentono di acquistare cosmetici per personalizzare gli avatar e aiuti da sfruttare nelle sfide. Ancor più incisiva di QuizQuiz sarà la seconda fatica scaturita dalla fantasia dello stesso sviluppatore coreano, ovvero MapleStory. È il 2003 quando questo semplicissimo MMORPG gratuito - cavalcando l'onda lunga generata da titoli come gli inglesi Neopets e RuneScape - inizia a scalare le classifiche orientali di download, incassando cifre da capogiro grazie all'apporto del celebre "Cash Shop" integrato.
L'interesse verso MapleStory risiede nella release giapponese, nello specifico in un particolare oggetto in gioco chiamato "GachaPon Ticket". Grazie a questo strumento, acquistabile per 100 yen, gli appassionati potevano interagire con versioni virtuali delle macchinette gachapon, estraendo capsule contenenti di volta in volta una ricompensa casuale. Insomma, nel giro di quattro anni gli studi di Nexon avevano presentato al mondo tanto il modello free-to-play quanto la formula cosiddetta "gacha", quella che oggi sta tratteggiando i contorni dello strepitoso successo di Genshin Impact.
La virata verso il lancio gratuito, dal canto suo, aveva già da tempo preso piede nel tessuto degli MMORPG, che stavano abbandonando in massa il tradizionale sistema economico per radunare il maggior numero possibile di utenti sotto il proprio stendardo. A quel punto, reso effettivamente 'massivo' il mondo virtuale, le microtransazioni svolgevano il resto del lavoro, rimpinguando oltre misura le casse dei publisher. Nel corso dei 2000, tale trend ha guidato dozzine di titoli del genere verso il completo abbandono del prezzo d'ingresso e dei sistemi in abbonamento: da Dungeons & Dragons Online fino ad Age of Conan, i cambi di rotta in corsa non accennavano a diminuire, arrivando a coinvolgere persino progetti massicci come Star Wars: The Old Republic. Ovviamente, a seguito dei conclamati ribaltoni finanziari, una simile ricetta miracolosa non avrebbe potuto passare a lungo inosservata ai veterani del settore.
Anche se i più imponenti publisher avevano iniziato da qualche anno a commercializzare contenuti post-lancio, come la celebre armatura per cavalli introdotta in The Elder Scrolls: Oblivion al prezzo di $2.50, la vera sortita nel mondo free-to-play restava ancora un miraggio. Fra i tentativi meno timidi spiccano quelli di Team Fortress 2 e Age of Empires Online, ma la vera rivoluzione sarebbe emersa da un universo che, per lo meno all'epoca, era considerato alieno al già immenso mercato dei videogiochi.
Quando Steve Jobs presentò al mondo l'iPhone di Apple nel 2007, in pochissimi avrebbero potuto prevedere l'enorme cratere che avrebbe provocato nel settore del gaming, forse perché le scottature lasciate da progetti come N-Gage di Nokia bruciavano ancora i polpastrelli degli appassionati. L'ascesa dell'App Store di Apple, in combinazione con la rinascita di browser game come il Farmville di Zynga, avevano iniziato a ridisegnare completamente gli equilibri di forza del settore, accogliendo un'immensa fetta di pubblico nella grossa nicchia dei software per l'intrattenimento. Nel 2011 l'intero processo giunse al pieno compimento, quando nelle classifiche dei titoli più redditizi su App Store gli incassi delle formule free-to-play annientarono la concorrenza dei software premium, dimostrando al mondo intero il potenziale del modello: di lì a breve sarebbe iniziata una vera e propria età dell'oro.
Rivoluzione
All'alba del 2013, League of Legends, DotA 2 affiancati anni più tari da Counter-Strike: Global Offensive, dominano incontrastati qualsiasi classifica di pubblico nel contesto della piattaforma PC. Nel medesimo anno, Candy Crush Saga impatta come un meteorite nel mercato smartphone, seguito a stretto giro da Clash of Clans, ed entrambi fanno registrare numeri completamente alieni agli standard dell'industria. Ciò che segue è un vero e proprio far-west creativo ed economico nel quale migliaia di piccole produzioni vedono luce ogni anno nella speranza di accarezzare il medesimo successo, spesso esponendo il segmento intero a pesanti critiche e nuotando in pericolose acque inesplorate. Sono anche gli anni della resistenza, perché i più grandi titani del settore restano incatenati a modelli creativi incapaci di abbracciare la deriva free-to-play. Il grande videogioco AAA, per sua stessa natura, sembra inadatto ad imboccare tale percorso e necessita di una violenta scossa per tentare di tornare a competere.
È l'epoca in cui i publisher ragionano nell'ottica del supporto post-lancio, finanziano i modelli basati su espansioni, introducono dozzine di contenuti extra, e soprattutto si affacciano nella terra di nessuno dei "games-as-services". I giochi come servizi, giunti all'attenzione del pubblico di massa a seguito del successo di Destiny nel 2014, sembrano il cavallo perfetto sul quale scommettere: si tratta di opere capaci di radunare decine di milioni di appassionati per poi cullarli nel cuore di universi persistenti e in costante evoluzione; iniziano addirittura a prendere forma i live-team, distaccamenti dei nuclei di sviluppo che rimangono ancorati all'ultima produzione lanciata anziché dedicarsi attivamente al progetto successivo. The Division, Rainbow Six Siege, Overwatch: questi sono solo alcuni esempi dell'unica filosofia creativa in grado di "salvare" il modello economico del videogioco venduto a prezzo pieno. Un modello che, d'altra parte, sarebbe inevitabilmente capitolato nel corso degli anni successivi, lasciando gli ultimi scampoli della guerra nelle sole mani delle avventure destinate al giocatore singolo.
L'avvento di Fortnite con la sua Battaglia Reale segna lo spartiacque definitivo, inaugurando un fenomeno globale tanto impattante da stravolgere qualunque modello di business in circolazione. In un mondo in cui non è necessario aprire il portafogli neppure per metter mano al più grande videogioco evento, Epic Games si trasforma nell'arco di pochi mesi in un colosso finanziario capace di mettere in imbarazzo i bilanci di interi stati. Il modello free-to-play ha vinto: bastano un videogioco gratuito, un "pass battaglia" e una manciata di elementi cosmetici per mettere in ginocchio un'industria ultra trentennale.
Più lontano dagli sguardi del pubblico di massa occidentale, Honor of Kings di Tencent diventa l'opera videoludica più redditizia al mondo, Hearthstone emerge come capofila del portfolio di Blizzard Entertainment, Pokémon GO si rivela una gallina dalle uova d'oro. Persino il Destiny di Bungie, un tempo l'ultimo guardiano del suo antico modello, si piega alle nuove esigenze del mercato abbracciando la formula free-to-play; un destino, questo, che sarebbe toccato anche al succitato Overwatch. Il mercato dei videogiochi si è affacciato su una nuova era.
Modello e implicazioni
La fattibilità del modello free-to-play vive legata a un semplicissimo assunto: se la base installata di utenti raggiunge una determinata soglia, è sufficiente che una minuscola parte di essa scelga di spendere per rendere il progetto sostenibile. Secondo una serie di report redatti da Swrve sulla monetizzazione dei videogiochi mobile, il 50% degli incassi del prodotto medio provengono dallo 0,15% della base installata. Ciò significa che 15 persone ogni 15.000 sono le cosiddette "white wales", quelle "balene" il cui sforzo economico rappresenta la fetta più consistente dei ricavi complessivi. Ovviamente un simile modello acquista maggior probabilità di successo al crescere del numero di utenti attivi, ed è proprio per questo motivo che il mercato si sta muovendo tanto nella direzione del free-to-play quanto in quella del lancio cross-platform. Ciò che conta è coinvolgere il numero più vasto possibile di giocatori nell'esperienza, e poco importa se la maggior parte ne fruirà in maniera completamente gratuita, perché è fondamentale che finisca nelle mani di poche persone giuste. Persone che, a loro volta, saranno via via più propense a spendere al crescere organico della base installata.
Gli MMORPG che per primi hanno adottato la transizione nel corso dei 2000 hanno talvolta conosciuto incrementi superiori al 100% nei ricavi e al 150% negli accessi quotidiani. Destiny 2, in seguito all'introduzione di "Nuova Luce" e della versione free-to-play, ha vissuto una crescita degli accessi di 20 milioni. Overwatch 2, dopo aver optato per la medesima formula, ha chiuso il primo mese di vita con oltre 18 milioni di utenti attivi a fronte dei 6 milioni risalenti al periodo antecedente il sequel. È quasi inutile citare pionieri del settore come Fortnite o League of Legends, che contano ormai oltre 200 milioni di utenti registrati ciascuno. Il segreto della longevità e del successo di tali produzioni risiede nella creazione di universi persistenti strettamente legati al contenuto stagionale, sfociato prevalentemente nella forma del Battle Pass, secondo un sistema che premia gli accessi su base continuativa attraverso ricompense e contenuti disponibili per un tempo limitato. Oggi, con il lancio di Valorant, la formula è maturata al punto da potersi permettere l'introduzione di pacchetti contenutistici che potremmo definire super-premium, ovvero microtransazioni prezzate nell'ordine delle centinaia di Euro. Ma cosa si acquista in concreto? Questa domanda costituisce la base delle più grandi controversie sorte sulle sponde del free-to-play.
Il pubblico ha iniziato da tempo a distinguere fra modelli virtuosi, che fanno della personalizzazione estetica il cuore della transazione, e diverse formule ibride sovente oggetto di polemica. Il caso più eclatante è quello dei videogiochi pay-to-win, ovvero i titoli nei quali è possibile acquistare vantaggi tangibili in termini di gameplay, caratteristica che li rende completamente incompatibili con la filosofia alla base delle esperienze competitive. Recentemente, nell'orbita di New World di Amazon, si è discusso invece dei cosiddetti "time-saver", oggetti che se acquistati risparmiano al giocatore operazioni lunghe e fastidiose; questa è la medesima ratio che per anni ha guidato i classici browser game e i primi free-to-play per mobile sottesi al sistema "pay-or-wait": la scelta in tali casi era tutta del giocatore, che poteva decidere se attendere l'esaurimento di un timer oppure pagare per ottenere subito ciò che desiderava. Più complessa, infine, è la questione delle loot-box e delle meccaniche gacha, nel corso degli anni divenute protagoniste di numerosi paper di ricerca che le associavano alla dipendenza dal gioco d'azzardo, al punto da spingere alcuni paesi europei come il Belgio a bandire le produzioni che ne facessero uso.
Il quadro che si è venuto a delineare è molto semplice: se nei casi in cui si opta per l'integrazione di microtransazioni volte alla semplice personalizzazione estetica non ci sono particolari implicazioni in termini qualitativi, tutti gli altri modelli portano all'inevitabile peggioramento dell'esperienza dell'utente. Se, ad esempio, nel videogioco viene inserito un oggetto a pagamento per evitare un'operazione lunga, significa che lo sviluppatore è ben consapevole che tale operazione sia tediosa. Tali dinamiche, ovviamente, non potrebbero trovare spazio nel contesto dei titoli venduti a prezzo pieno, ed è proprio per questa ragione che grosse frange del pubblico paventano un inevitabile peggioramento della qualità intrinseco nel modello free-to-play. Ma cosa accade, invece, quando l'esperienza si presenta qualitativamente impeccabile pur adottando sistemi economici discutibili? Questo è il grande dilemma che sporca i contorni di grandissimi lanci quali Diablo Immortal e Genshin Impact, opere solidissime che attualmente si trovano ad essere amate e criticate in eguale misura sul piano etico.
Un futuro ancora da scrivere
Come la pirateria ha portato alla fondazione dei primi servizi di media streaming, così i videogiochi free-to-play hanno senza dubbio spinto verso la creazione di servizi equiparabili, quali Xbox Game Pass e il nuovo PlayStation Plus. Si potrebbe sostenere, allo stesso modo, che grazie a tali modelli vedremo crescere, sul piano quantitativo e qualitativo, l'offerta delle grandi opere ancora immuni al nuovo sistema, quelle che mirano a mantenere intatta la propria identità di prodotto premium. A finire nel fuoco incrociato, tuttavia, sarebbero le piccole e le medie produzioni, costrette ad entrare nei grandi scatoloni in abbonamento oppure a rischiare l'anonimato tramite un lancio tradizionale. La verità è che la storia del modello free-to-play insegna quanto sia complesso tentare di prevedere l'evoluzione del mercato.
Se da una parte i produttori dei grandi videogiochi AAA lamentano da anni l'insostenibilità del proprio modello commerciale, quello della gratuità non sembra per loro un sentiero percorribile, tracciando due strade e due solamente: i titoli dal forte impatto - come i Grand Theft Auto o gli Elden Ring - si trasformano in fenomeni su scala globale, mentre chi non ce la fa va incontro a clamorosi tonfi finanziari.
E allora quale sarà il futuro? Un mercato equamente diviso tra grandissimi lanci ed esperienze free-to-play? Un mondo in cui la pubblicità si farà strada fino a penetrare le avventure in giocatore singolo?
Fino a questo momento il modello gratuito è stato in grado di portare per la maggior parte benefici all'esperienza utente, spingendo verso la creazione di nuovi metodi di fruizione e consentendo a molti appassionati di spassarsela senza spendere un centesimo. Eppure la sua storia è fatta di luci e ombre, e il compito di illuminare - e rifiutare - la sua componente più oscura risiede solamente nelle mani dei videogiocatori: anche questa volta saranno gli unici fabbri del destino del medium.