Se dovessimo racchiudere in un termine il progetto Metal Gear Solid V: The Phantom Pain forse sceglieremmo dualità. Senza dubbio il tema del doppio ha sempre rappresentato un cardine concettuale nella saga firmata da Hideo Kojima, ma nel quinto episodio "solido" questo aspetto sembra coinvolgere un numero ancora maggiore di ambiti della produzione: dalla narrativa (con la vera identità di Big Boss), al gameplay (con due aree principali disponibili); passando per la turbolenta rottura tra il geniale designer giapponese e Konami.
Il primo settembre 2025 questo gioco di luci e ombre ha compiuto 10 anni e noi abbiamo deciso di rendergli omaggio; di celebrare un'opera che - guarda caso - si divide tra eccellenza e incompiutezza, e che nel tempo è divenuta un oggetto di culto capace ancora oggi di far discutere e riflettere.
La decostruzione dell'eroe
La storia di The Phantom Pain si mette in moto nove anni dopo gli eventi del prologo, Ground Zeroes, con Big Boss che si risveglia da un profondo coma e scopre due cose: che il suo braccio sinistro è stato amputato e che il suo ex gruppo militare, i Militaires Sans Frontières, è stato distrutto.
Conosciuto ora come Venom Snake, il nostro eroe si imbarca così in una missione di vendetta contro il suo ex mentore Zero e, una volta entrati in azione, è facile notare come, a differenza dei capitoli precedenti, The Phantom Pain adotti un approccio narrativo a tratti più "minimalista" e frammentato. La storia si sviluppa infatti principalmente attraverso registrazioni audio che il giocatore può ascoltare in qualsiasi momento, anche mentre è in missione; un espediente, questo, che se da un lato permette di non interrompere l'azione, dall'altro finisce a volte per diluire un po' l'impatto emotivo di alcuni eventi, lasciando all'utente il compito di assemblare i pezzi del puzzle narrativo.
A ogni modo, il vero colpo di scena, o forse la più grande e divisiva controversia, arriva nel finale. Non staremo qui a svelarlo nei dettagli per non rovinare l'esperienza a quei pochi fortunati che ancora devono affrontarla, ma è impossibile dimenticare il modo in cui la narrazione mette in atto un dribbling sorprendente, che tuttavia è riuscito a far sollevare polemiche e storcere nasi.
L'epilogo architettato da Kojima ha infatti scatenato un acceso dibattito tra i fan: quello di Metal Gear Solid V è un finale coraggioso che decostruisce il concetto di eroe o un escamotage insoddisfacente? Qualunque sia la risposta - ammesso che ce ne sia una -, quel che è certo è che il percorso attraverso cui si sviluppa l'odissea di Big Boss rende il giocatore non solo uno spettatore, ma addirittura un partecipante attivo alla stessa leggenda che circonda la sfuggente e mitologica figura del "soldato perfetto".
La rivoluzione del gameplay
Con la sua pubblicazione, The Phantom Pain spazza via le convenzioni degli episodi che lo hanno preceduto - che si basavano su mappe più o meno lineari e percorsi predefiniti -, per aprirsi finalmente a un mondo di gioco aperto. Questa scelta non rappresenta però solo un cambiamento di scala, ma una vera e propria rivoluzione filosofica che trasforma ogni missione in un campo di battaglia in cui il giocatore ha totale e assoluta libertà di approccio.
L'avventura di Big Boss recupera di fatto ciò che aveva solo accennato Metal Gear Solid 4: Guns of the Patriots, accrescendo le dimensioni e soprattutto aumentando le possibilità: la strada per il successo non è più infatti una e una soltanto; ora è possibile scegliere di attaccare frontalmente, sfruttare la furtività notturna, pianificare un'infiltrazione silenziosa diurna, o persino sabotare l'equipaggiamento nemico e fuggire, lasciando che il caos faccia il lavoro sporco.
Il cuore pulsante di questa libertà risiede ovviamente nel sistema Fulton già introdotto da Peace Walker, una meccanica ingegnosa utile a recuperare e inviare alla Mother Base ogni tipo di risorsa, tra cui soldati, veicoli, postazioni di artiglieria e persino animali selvatici. Ogni elemento portato a casa serve così a potenziare armi, a sviluppare gadget e a migliorare le strutture del nostro quartier generale (ulteriormente ampliabile tramite le FOB), contribuendo ad affiancare una profonda fase manageriale a quella attiva sul campo.
Ed è proprio in questo secondo aspetto che si ritrova un'ulteriore manifestazione di quella dualità che abbiamo anticipato nell'introduzione: lungo i deserti dell'Afghanistan o nelle umide zone al confine tra Angola e Zaire, Snake non deve più infatti agire da solo, ma ha la facoltà di portare con sé o di chiamare in aiuto dei compagni. Al D-Horse - perfetto per spostarsi velocemente - e al D-Dog - utile per rivelare la posizione dei nemici -, si affiancano infatti il D-Walker e soprattutto Quiet, cecchina infallibile e spalla abilissima nel creare diversivi e colpire dalla distanza.
Un'eredità incompiuta
Oltre alla sua struttura inedita per la serie, The Phantom Pain rappresenta però anche un punto di svolta cruciale per il marchio: dal punto di vista narrativo, collega infatti in modo definitivo la storia di Big Boss a quella di Solid Snake e agli eventi del primo Metal Gear per MSX. Ma, soprattutto, il titolo ha il merito di esplorare temi complessi e spinosi come la perdita dell'identità, il dolore fantasma, la natura ciclica e autodistruttiva della guerra, nonché il vergognoso sfruttamento dei bambini in ambito bellico.
Il giocatore si interroga così su cosa significhi essere davvero un eroe, finendo per rendersi conto che questa condizione altro non è che uno status che si può persino forgiare, se non addirittura imporre. La figura di Big Boss, fino ad allora una leggenda, viene dunque smantellata, rivelando come il suo mito sia un'entità che può essere trasmessa e manipolata. Un'idea, insomma, che è forse più potente della persona stessa.
Com'è risaputo, però, The Phantom Pain rappresenta anche l'ultimo ballo di Hideo Kojima sotto l'egida di Konami, a causa di un divorzio dolorosissimo per i fan che ha influenzato in modo evidente tutta la produzione. Il travagliato processo di sviluppo, costellato di voci su tagli e contenuti mancanti, lascia quindi in eredità agli appassionati un pesante bagaglio di rimpianti, di quelli che di notte, in camera tua, ti fanno fissare il soffitto mentre immagini cosa Metal Gear Solid V avrebbe potuto essere e invece non è stato. Quello che nel 2015 ci siamo ritrovati tra le mani è dunque un prodotto che appare come incompleto, mozzo, e che sembra privato di alcune sue parti fondamentali. Curioso, sembra che stiamo parlando del suo protagonista, non è vero?
Genio e caos
Conosciuto inizialmente solo come The Phantom Pain, all'alba del suo sviluppo, il titolo - non ancora legato al nome di Kojima - appare come un oggetto misterioso per il pubblico e per la stampa specializzata. A marzo del 2013, il designer nipponico toglie però finalmente il velo dalla verità, rivelando come dietro le quinte del progetto ci sia appunto Kojima Productions, e come The Phantom Pain sia in realtà Metal Gear Solid V; opera che avrebbe visto in Ground Zeroes il proprio prologo e che sarebbe uscita per la settima e l'ottava generazione di console.
Il budget finisce però per lievitare fino a cifre astronomiche, superando i 75 milioni di dollari e, come se non bastasse, le tensioni tra Kojima e Konami emergono pubblicamente finendo per riflettersi anche nel gioco stesso. La seconda parte della storia sembra infatti affrettata, ed è proprio qui che la frammentazione del progetto diventa evidente e il senso di un'opera incompiuta si fa più forte. Pare infatti che l'avventura avrebbe dovuto mettere in scena anche un terzo capitolo costituito da ben otto missioni, tra cui la celebre numero 51, i cui filmati sono stati poi inclusi nella Collector's Edition.
Sia come sia, malgrado la lavorazione tribolata, quello che il buon Kojima e i suoi ci hanno consegnato è comunque un prodotto di valore assoluto, che magari avrà esercitato sulla serie un impatto minore rispetto a quello del primo o del terzo Metal Gear Solid, tanto per fare due esempi, ma che è stato capace a modo suo di cambiare il paradigma dell'esperienza attraverso una formula audace e rischiosa.
Un cambiamento, questo, che magari non tutti avranno apprezzato, ma che ha spostato di un ulteriore passo in avanti l'impronta stealth della saga, allargando i suoi orizzonti e proiettando il nome Metal Gear Solid verso il futuro. Un futuro di cui però, a oggi, non si scorge ancora la sagoma, eccezion fatta per Metal Gear Solid Delta: Snake Eater, che tuttavia è in realtà più uno sguardo al passato.
Sta di fatto che, a distanza di dieci anni, Metal Gear Solid V: The Phantom Pain rimane un'esperienza che, pur nella sua incompiutezza, ha saputo superare certe aspettative e lasciare un'eredità che continua a essere discussa e ammirata. Proprio come lo sono gli eroi, se ci pensate.