L'evoluzione che ha colpito il mercato videoludico negli ultimi anni ha senza ombra di dubbio seguito una traiettoria economicamente fruttuosa, cercando di imporsi come industria in grado di generare grandi profitti, tanto quanto (se non oltre, come ha ampliamente dimostrato) le più "tradizionali" forme di intrattenimento. Questo ha portato, da un lato, ad avere produzioni immense, che puntano spesso sulla ricerca forsennata del fotorealismo e della valenza ideologico-narrativa e, dall'altro, a prodotti in grado di massimizzare i guadagni con il minimo sforzo.
Questa sorta di bilancia permette al mercato di autoalimentarsi, creando, tra i due estremi, un porto franco, un luogo dove sperimentazione, scommessa e innovazione trovano un loro terreno di gioco relativamente sicuro: è la terra degli indipendenti (chi più, chi meno). La tendenza di questi piccoli studi, quando non cercano di andare eccessivamente oltre le proprie possibilità, è quella di puntare tutto sullo stile della loro opera, dandogli una riconoscibilità immediata, capace di portare a un'identificazione fulminea del prodotto e di chi lo ha realizzato. Fare ciò, spesso, si traduce in andare a pescare nel passato, nella mente del nostalgico e trasporre tale ricordo in una visione del presente.
È ciò che Sam Barlow sta attuando con la sua casa di sviluppo Half Mermaid, ovvero andare a sconvolgere i dettami del mercato cercando di proporre produzioni videoludiche fuori dagli schemi, immessi sul crocevia dell'ibridazione mediale, forse anche con un certo grado di inconsapevolezza.
Riesumare i morti: il Full Motion Video
Quella composta dai primi tre lavori del team di Half Mermaid sembra essere a tutti gli effetti una trilogia (almeno al momento). Da Her Story, passando per Telling Lies, fino all'acclamato Immortality, le tre opere di Barlow condividono elementi in comune che vanno oltre il mero aspetto visivo. Partiamo, però, proprio da questo.
La prima delle tante particolarità che subito balza all'occhio del giocatore-spettatore è che ciò a cui sta assistendo non è il solito videogioco in computer grafica, ma qualcosa di diverso. Per molti, quello con Her Story o i suoi successori potrebbe essere stato il primo contatto con il Full Motion Video (FMV), ma i più attempati (o i più curiosi) avranno sicuramente già avuto modo in passato di incontrare lungo il loro cammino videoludico questo tipo di produzioni, specialmente nel periodo di maggiore fioritura per tali prodotti, ovvero durante gli anni Novanta. Ecco, Barlow e il suo team hanno riportato in vita un cadavere del tardo XX secolo e come novelli Frankenstein ne hanno rimesso insieme i pezzi, dando forma a un videogioco diverso, con molteplici strati di significato, in un connubio meta-videoludico che esemplifica perfettamente gli anni di turbolenza creativa che stiamo vivendo.
Il Full Motion Video è stato, forse, il primo vero incontro tra cinema e videogioco. Prima, infatti, il legame era prettamente iconico e di genere, con videogiochi ispirati alle grandi narrazioni cinematografiche o, molto spesso, anche creati su commissione, proprio per accompagnare il lancio di nuovi blockbuster e massimizzarne i profitti. Con il FMV, invece, il videogioco diveniva cinema e viceversa, o, perlomeno, quello era l'intento. Infatti, la maggior parte di tali produzioni sono state vittime e carnefici della loro stessa aspirazione, proponendo al videogiocatore qualcosa che era in parte un film e in parte un videogioco, due facce della stessa medaglia che, però, mai riuscivano realmente a incontrarsi e a legarsi adeguatamente. Alcuni di questi prodotti sono senza ombra di dubbio diventati cult dei videogiochi (ci viene in mente Dragon's Lair), ma ciò non ha impedito al mercato di abbandonare quella strada e seguire i nuovi lidi della grafica computerizzata in tre dimensioni, lasciandosi il Full Motion Video alle spalle e trovando nuovi modi per comunicare con il mondo cinematografico e televisivo.
Quello che rende diversi i lavori di Barlow rispetto a ciò che il FMV si è rivelato essere alla fine del secolo scorso è il suo modo di contestualizzare tali avventure in uno spazio che metta il giocatore in primo piano, al comando dell'azione narrativa, esattamente come si farebbe con un qualsiasi altro alter ego videoludico, con l'eccezione di far praticamente combaciare queste due istanze identitarie.
Nella fantomatica trilogia di Barlow, pur prendendo le parti di un avatar, per gran parte dell'avventura non sentiamo il peso di un legame con una nostra versione digitale: siamo noi quella stessa versione, dinanzi a uno schermo che è fittizio e reale allo stesso tempo.
Alla ricerca della dualità
I tre videogiochi di Half Mermaid ci mettono dinanzi a un concetto fondamentale del videogioco: la dualità. Il doppio videoludico, l'alter ego, l'avatar di gioco sono elementi comuni alla maggior parte dei videogiochi che abbiamo modo di provare. Noi giocatori veniamo chiamati a calarci nei panni di qualcuno diverso da noi, eppure suddito delle nostre intenzioni. È l'interattività la costante che separa l'identificazione cinematografica con l'immedesimazione videoludica: per buona parte dell'avventura, siamo noi a scegliere come proseguire, quando, in che misura; siamo noi a decidere di camminare o correre, fermarci a osservare o proseguire spediti. Scegliamo l'inclinazione dello stick, la pressione di un pulsante, l'affondo di un grilletto, il tutto nella relativa schematicità imposta dagli sviluppatori, ma comunque con un certo margine di ritmo e approccio, che rende ogni partita diversa dalla precedente nelle sue caratteristiche più basiche e ininfluenti (fermarsi per qualche secondo ad ammirare un paesaggio non cambierà il finale del gioco, ma si rivela essere comunque una scelta del singolo, che può differire nei modi e nelle istanze da quelle di altri giocatori).
Solitamente, diamo per scontate queste piccole cose, che rendono il nostro alter ego videoludico una parte di noi stessi: c'è uno scambio continuo tra la nostra controparte digitale e il nostro io fisico. Nei giochi di Barlow presi in esame, questa peculiarità videoludica viene interpellata e messa pesantemente in discussione.
Prendiamo come esempio Telling Lies, secondo capitolo di questa ipotetica trilogia. Qui troviamo un'evoluzione di quanto fatto con Her Story: il gioco si svolge interamente sulla schermata di un computer. Tuttavia, ciò che guardiamo non è semplicemente il contenuto di quest'ultimo, ma il monitor stesso. Infatti, vediamo costantemente sovrimpressa all'immagine videoludica il volto di una donna, evidentemente seduta dinanzi al computer sul quale si svolge l'azione. Quella donna è il nostro alter ego, ma è un alter ego appena accennato, sublimato, che coincide con la nostra persona posizionata davanti al monitor. È il nostro riflesso. Il giocatore coincide perfettamente con il suo doppio videoludico perché, in definitiva, il software sta girando sul suo computer e tutto sembra rispondere alle sue volontà. Non ci sono visuali da muovere, prospettive da compensare: è tutto perfettamente proporzionato; un'esperienza 1:1 di una realtà immaginata.
A dare manforte a questa congruenza tra identità troviamo la natura investigativa di tutti e tre i giochi. Il fatto di dover risolvere un mistero, scovare la verità dietro micro-testimonianze di individui dal passato incerto, incrementa di molto il coinvolgimento del giocatore all'interno del gioco, che viene chiamato in prima persona a risolvere il caso, senza la presenza (troppo) invasiva di un personaggio terzo, un mediatore che metta in comunicazione fruitore e istanza narrativa.
L'ossessione del doppio
Questo forte legame con il concetto di dualità non si ferma all'aspetto esperienziale, ma si insinua profondamente anche nelle effettive avventure proposte da Barlow e compagnia. Sia Her Story, che Telling Lies, che Immortality affrontano il tema del doppio e gli affibbiano una rilevanza protagonistica. Personaggi che si scoprono essere il loro opposto, personalità fraintese in fuorvianti conversazioni cristallizzate in pochi secondi di girato, scambi di identità, sotterfugi, bugie, segreti, maschere. Tutto sembra condurre a un'ossessione per ciò che è duale, convergente o dicotomico che sia. È un gioco di specchi, tanto che anch'essi vengono costantemente messi in scena (in Immortality se ne trovano a dismisura, ma anche il riflesso perpetuo del nostro avatar in Telling Lies ne è un esempio). Questi sono tutti espedienti atti a portare sullo schermo personalità spezzate, traviate, incomplete, fondamentali per il tipo di narrazione investigativa che vuole proporre Barlow con tali peculiari operazioni videoludiche che richiamano a gran voce il genere del found footage.
Giocare con i generi
Tornando al carattere visuale delle opere di Sam Barlow, ogni suo gioco di questa trilogia si mette faccia a faccia con un diverso utilizzo dei dispositivi di ripresa audiovisivi. Her Story (anche per necessità economiche) andava a esplorare il mondo del true crime e dei video-interrogatori, mettendo il giocatore davanti agli archivi digitali di una centrale di polizia. Telling Lies si spingeva oltre, adottando in modo ancora più stringente il genere dello "screenlife" (che stava trovando fortuna in contesti cinematografici e seriali) e immergendo il giocatore in un'avventura investigativa affondata nel privato di una ristretta cerchia di individui, il tutto raccontato attraverso registrazioni di videochiamate e telecamere nascoste. Immortality, infine, è la quintessenza della ricerca stilistica legata a determinati periodi storici. I tre film presenti nel gioco si muovono sulla linea del tempo cinematografica, andando a puntellare gli scarti generazionali che ne hanno caratterizzato la storia.
Ambrosio è il tipico film degli ultimi anni Sessanta, al confine tra studio system e cinema d'autore europeo, spregiudicato, dissacrante, ma fortemente legato a un tipo di produzione "alta", piena di effetti scenici spettacolari (a tratti ricorda il cinema di Jodorowsky). Minsky, al contrario, è la New Hollywood, il film indipendente e fiero di esserlo, alternativo, l'inizio di un nuovo modo di concepire il cinema, in situ, con attori presi dalla strada e strade prese per attori. Two of Everything è la fine del secolo, la fine del cinema "come una volta", gli ultimi sprazzi di vecchio mondo prima dello scoppio della bolla; anche questo un film di confine, ma questa volta tra analogico e digitale.
Quindi, in questa trilogia troviamo tre modi di narrare per immagini completamente differenti: abbiamo un effetto statico e documentario, uno intimo e scomposto e uno prettamente cinematografico. Ognuno di questi tre approcci è aiutato nella creazione della giusta atmosfera dal contesto interattivo nel quale i giochi ci catapultano (un database della polizia, un computer privato con video trafugati, una moviola digitalizzata), cosa che va tutta a giovamento del coinvolgimento del giocatore, capace di identificare con facilità subliminale un filo rosso che unisce l'esperienza nella sua totalità.
Scavare più a fondo
Tutti e tre i giochi di Half Mermaid condividono lo stesso interesse per il mistero e l'investigazione di casi che, a volte, hanno perfino del soprannaturale. L'ossessione, qui, è per la ricerca non solo della verità, ma anche di un linea stilistica riconoscibile, un "modus operandi", un'estetica. Il tema investigativo fa buon viso a cattivo gioco (dato che trovare modi soddisfacenti di rendere coinvolgenti lavori in Full Motion Video è abbastanza complesso, come la storia ci ha insegnato) e, soprattutto, punta su quell'effetto di immediatezza e piacere della scoperta che accomuna gran parte del pubblico videoludico. È difficile riuscire a staccarsi da qualcosa quando vengono costantemente dati input, informazioni e indizi che portano a nuove intuizioni e vie da seguire, specialmente se l'obiettivo finale è quello di svelare una verità nascosta. Her Story faceva ciò con la parola scritta, attraverso l'impiego di parole chiave che riconducevano ai frammenti sonori dei contributi audiovisivi. Telling Lies evolveva tale sistema dando la possibilità di ricercare direttamente le parole pronunciate durante un video semplicemente selezionandole dai sottotitoli. Immortality, invece, si discosta totalmente dai caratteri e pone tutta la sua attenzione sull'immagine e ciò che si trova all'interno dell'inquadratura.
La parabola seguita sembra essere quella dell'immediatezza dell'interazione e della rispettiva "ricompensa", cosa che sembra seguire perfettamente l'evoluzione dell'attenzione attribuita dal pubblico di massa a determinati modi di raccontare. In un mondo di video da quindici secondi che si susseguono come una cascata, non stupisce se la parola venga soppiantata dall'immagine, in un flusso senza fine di collegamenti iconico-contestuali.
Questa serie di videogiochi portanti la firma di Sam Barlow (che potremmo definire, a questo punto, una "trilogia dell'ossessione") ci hanno mostrato cosa è possibile fare in un'industria varia e vitale come quella videoludica che ci troviamo ad abitare. Riesumare un corpo decadente del XX secolo, adattarlo a un contesto sociale come quello odierno in modo efficace, in grado di interpellare direttamente il giocatore in un connubio metanarrativo che spazia tra generi e media non è compito facile, ma è sicuramente possibile. E in un mondo mediale che arranca su se stesso, alla ricerca di nuovi modi di coinvolgere un pubblico sempre più sfuggente, è rincuorante vedere che una tale spinta, una tale salvifica espressività arrivi proprio dal reietto mediale per eccellenza, visto con occhio sprezzante dall'opinione pubblica, additato per anni dai detrattori come il male ultimo dei prodotti d'intrattenimento, Satana in persona: il videogioco. Ora chi avrà il coraggio di dire loro che è proprio Lucifero il nostro salvatore?