Pochi giorni fa è morto Archer MacLean, ma la notizia è passata davvero in sordina. In pochi l'hanno riportata e lì dove se n'è parlato l'interesse generale da parte dei lettori è stato decisamente scarso, quasi nullo, come tristemente qui da noi su Multiplayer.it. C'è da dire che gli addetti ai lavori non si sono certo sbracciati per celebrarlo.
Programmatore sopraffino, autore fenomenale e amatissimo, tanto che iniziò a mettere il suo nome nei titoli dei giochi, MacLean dietre un contributo enorme alla creazione e all'affermazione della scena inglese, grazie a giochi raffinati e tecnologicamente incredibili come Dropzone, gli International Karate e i suoi amati simulatori di biliardo. Se oggi ci sono così tanti studi di sviluppo nel Regno Unito lo si deve anche a pionieri come lui, che con i loro successi dimostrarono la vitalità della scena e le fecero raggiungere il mondo intero in anni in cui non era scontato farlo, mettendo in contatto diversi mercati.
Ora, non bisognava bloccare tutto per la morte di MacLean, questo no, ma quantomeno, come medium creativo quale il videogioco pretende di essere, bisognava dargli il rispetto che un figura come la sua indubbiamente merita, per quanto negli ultimi anni non fosse più sulla ribalta. Bisognava provare a inserirlo nel discorso collettivo, fermarsi un attimo a ricordarlo, aiutare chi non ha vissuto quegli anni a contestualizzarlo, magari giocare i suoi titoli più rappresentativi in qualche live, e non perché si deve per forza guardare al passato, ma perché a un certo punto bisognerà pur arrivare a comprendere che i videogiochi moderni non nascono dal nulla e sono figli di un percorso che parte da lontano. Se li si vuole apprezzare e capire davvero è imprescindibile sapersi muovere nella storia che li ha creati. Bisognava mettere da parte il "prodotto" videogioco per provare a parlare dell'"opera" videogioco, ossia smetterla di vendere videogiochi per qualche minuto. Niente che una qualsiasi industria culturale non faccia quando perde un suo autore.
Eppure niente. Celebriamo come autori dei cialtroni, come saggi degli incapaci che esplodono ogni volta che escono dalla loro comfort zone e quando muore qualcuno che sapeva far cantare l'hardware su cui programmava la cosa ci lascia completamente indifferenti. Si parla tanto della maturità del medium, ma la verità è che i videogiochi rimarranno sempre una roba per bambini, almeno finché continueranno a essere considerati anche da chi dice di amarli dei giocattoli destinati a gente senza memoria.