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La storia dei videogiochi deve rimanere americanocentrica? O bisogna iniziare a capirla davvero?

Cerchiamo di riflettere sul fatto che la storia dei videogiochi è in realtà un collage di storie che non può essere ridotto alle vicende di un solo territorio.

NOTIZIA di Simone Tagliaferri   —   06/05/2022

Quando si parla di storia dei videogiochi molti dimostrano di avere una visione abbastanza distorta dell'evoluzione del medium. Di base a prevalere è una visione americanocentrica per cui si considerano gli Stati Uniti il territorio di riferimento dell'intero mondo, come se rappresentassero l'universalità del settore e tutti i fatti avvenuti altrove non avessero una loro importanza o dignità. La stessa storia dei videogiochi giapponesi viene spesso letta in relazione ai rapporti economici tra le case nipponiche e gli USA, perdendosi per strada buona parte della sua specificità o, peggio ancora, restituendone dei racconti pieni di pregiudizi.

Purtroppo gli operatori del settore, giornalisti compresi (perché no) hanno la pessima tendenza a guardare alla storia dei videogiochi solo dal punto di vista dei rapporti di forza economici, perdendosi per strada intere regioni in cui la cultura videoludica si è sviluppata in modo autonomo e spesso molto interessante.

Per rendersi conto di quanto sia sbagliato leggere il passato del medium solo da un punto di vista, per quanto comodo, consideriamo la famosa crisi del 1983, che secondo una certa narrazione stava rischiando di distruggere il medium stesso. Tanti ne parlano come di un evento apocalittico e spesso calcano la mano su questo punto, quando in realtà i suoi effetti furono molto meno vasti di quanto si creda. Certo, i primi grandi produttori hardware USA, come Atari e tutte le aziende che le gravitavano intorno, finirono a gambe all'aria, ma i videogiochi non rischiarono mai veramente di sparire e la crisi toccò solo relativamente territori come il Giappone o l'Europa.

Per capire come la vicenda sia stata spesso raccontata in modo distorto ed esagerato, basti pensare ai modi differenti con cui viene chiamata in giro per il mondo: negli Stati Uniti si parla di "Video game crash", espressione buco nero che sembra risucchiare al suo intero medium, mentre i giapponesi la raccontano come "Atari shock", ossia circoscrivono meglio l'evento già dal nome, limitandone così la portata. Del resto da loro durante gli anni della crisi, ossia quelli tra il 1983 e il 1985, l'industria prosperò, tanto che furono proprio due produttori hardware giapponesi, Nintendo prima e SEGA al seguito, che risollevarono il mercato console negli USA.

La stessa Europa sentì poco gli effetti dell'Atari Shock. Per il vecchio continente è addirittura sbagliato parlare di mercato, visto che c'erano molti mercati differenti in quegli anni, alcuni fatti addirittura da hardware diffuso solo all'interno di determinate nazioni (pensate alla Francia e agli Oric o all'influenza di Spectrum e BBC Micro sul mercato inglese). Per capire bene la situazione basta leggere questo ricco articolo di Damiano Gerli, che fa un quadro completo di quell'epoca. Sempre a fini di comprensione della questione, potete leggere questo interessante thread sul forum Resetera, dove un giocatore moldavo racconta le peculiarità del medium videoludico nel suo territorio, tra competizioni tra pirati per chi produceva la traduzione migliore dei giochi "importati" e un grande amore per le avventure grafiche, che non ha conosciuto crisi, tanto che localmente ritenevano quasi assurdo che si parlasse di crisi del genere, tante e tali erano le produzioni locali di cui potevano godere.

Anche oggi la situazione è molto più sfaccettata di quanto si creda. Pensate ad esempio alla ricezione di Xbox Cloud Gaming in Brasile, molto più entusiasta che in USA ed Europa, che si spiega per la sofferenza di quel territorio con i prezzi eccessivi dell'hardware.

Naturalmente con questo articolo non pretendiamo di esaurire la questione. Consideratelo solo un punto di partenza per un discorso molto più grande, che riguarda non solo come ci raccontiamo i videogiochi, ma anche come li contestualizziamo e comprendiamo.