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Detroit: Become Human, la recensione

A distanza di cinque anni dal precedente progetto, Beyond: Due Anime, il director francese torna a dire la sua nel genere delle avventure interattive

RECENSIONE di Pierpaolo Greco   —   24/05/2018
Detroit: Become Human
Detroit: Become Human
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Come ci è già capitato di dire in passato in occasione dei nostri precedenti incontri con Detroit: Become Human, questo nuovo progetto dei ragazzi di Quantic Dream rappresenta a tutti gli effetti l'erede spirituale di Heavy Rain. Chi ricorda quest'opera di David Cage e ha avuto la fortuna di giocarla in passato, sa perfettamente cosa aspettarsi dal nuovo videogioco. Le similitudini sono fortissime nel modo di raccontare la storia; nella gestione e suddivisione dell'arco narrativo tramite personaggi multipli le cui vite, immancabilmente, tenderanno a intrecciarsi; nel poggiare gran parte delle meccaniche di gameplay sull'uso dei quick time event. Anche quell'idea di porre il giocatore davanti a un numero enorme di scelte che avranno conseguenze sui personaggi, talvolta anche fatali e drammatiche, fino a determinare un preciso epilogo all'interno di uno spettro di finali multipli, è qui presente intonsa.

Detroit: Become Human, la recensione

È insomma ben evidente fin dai primi minuti di gioco la voglia di Quantic Dream di allontanarsi con forza dalla deriva action e forse persino più lineare di Beyond: Due Anime, che ad oggi rappresenta il picco negativo toccato dalla software house di Cage. O comunque il prodotto più anomalo e lontano dagli stilemi della sua seconda vita di sviluppatore, quella in cui le avventure interattive hanno preso il posto dei gameplay più strutturati e profondi dell'era di Omikron e Fahrenheit. Risulta quindi essenziale approcciarsi a Detroit: Become Human avendo ben presente che cosa si sta per avviare sulla propria PlayStation 4 e soprattutto contestualizzandolo all'attuale situazione di mercato che è estremamente differente da quella presente ai tempi di Heavy Rain, ben otto anni fa. A quel tempo gli indie erano agli albori, i walking simulator e più in generale i titoli con una fortissima predisposizione alla narrativa non erano ancora parte integrante dell'offerta digitale dei vari store, e la rinascita delle avventure grafiche ad opera di Telltale Games era appena iniziata. Oggi chi vuole godersi una bella storia, non preoccupandosi troppo dei controlli e dei comandi, ha numerose alternative, anche a bassissimo costo, ed è con questa forma mentis che abbiamo iniziato a maturare il nostro giudizio su Detroit: Become Human.

Detroit: Become Human, la recensione

Every hero has a code

Partiamo proprio dal canovaccio narrativo del gioco, senza dubbio il suo elemento determinante e più caratterizzante. Evitando con cura qualsiasi rischio spoiler. Detroit: Become Human è ambientato in un futuro relativamente immediato. Siamo nel 2038 e la popolosa città americana dello stato del Michigan, dopo aver contribuito in modo determinante alla diffusione delle automobili, sta ora vivendo una nuova giovinezza tornando a essere il centro del progresso economico e tecnologico grazie alla Cyberlife, un'azienda che nel giro di pochissimi anni è riuscita a diventare la più grande del mondo per fatturato infrangendo ogni record precedente. Il motivo del successo è semplicissimo: è l'unica che è riuscita a inventare, brevettare e portare sul mercato gli androidi. Macchine dalle sembianze umane, con un'intelligenza artificiale di molto superiore all'uomo e in grado di svolgere qualsiasi compito, dalla bassa manovalanza a impieghi di concetto, rispettando ed eseguendo gli ordini dei proprietari.

Detroit: Become Human, la recensione

L'avvento degli androidi ha naturalmente sconvolto fin dalle fondamenta l'economia della Terra con ripercussioni gravissime sull'occupazione e più in generale sull'idea di stato sociale, di urbanizzazione delle città e di evoluzione della tecnologia tout court. Gli androidi sono parte integrante della società, sono sì al servizio dell'uomo ma generano anche un pericoloso rapporto di amore e odio con l'umanità. A partire da questa fragilissima situazione di convivenza forzata, Detroit si ritrova a narrare le vicende di tre distinti robot creati con differenti specifiche d'uso e le cui esistenze si andranno a intrecciare nell'arco della settimana in cui si svolgono le vicende del gioco. Markus è un androide al servizio di un ricco artista dalla salute cagionevole: una sorta di assistente personale che lo aiuta a espletare le sue funzioni biologiche ma anche a vivere una vita agiata e confortevole. Kara è la versione tecnologica della tata con masioni da colf che si ritroverà, suo malgrado, coinvolta in una situazione famigliare drammatica. Infine c'è Connor, il più avanzato tecnologicamente, un prototipo costruito dalla Cyberlife per aiutare la polizia con i casi più complessi, quelli che richiedono l'intervento di un detective.

Detroit: Become Human, la recensione

A mettere in moto la narrativa saranno un numero crescente di situazioni e avvenimenti che sembrano evidenziare una presa di coscienza da parte di un gruppo ristretto (ma in costante aumento) di androidi che sono riusciti a superare i limiti imposti dalla loro programmazione per liberarsi dal controllo umano e guadagnare una precisa identità. Questi robot stanno diventando esseri senzienti capaci di pensare in modo autonomo e arrivando persino a provare delle emozioni. Sono i devianti: proprio quelli a cui Connor dovrà dare la caccia. Su quest'idea di macchine che diventano umane, e di umani che sono più spietati delle macchine, sull'affascinante concetto dell'integrazione, della schiavitù e dello sfruttamento, si basa tutta la forza narrativa di Detroit che però, purtroppo, non riesce mai a liberarsi dai cliché della narrativa di genere. Rispetto a un Heavy Rain che nella sua semplicità di thriller ancorato a vicende più "normali" e quotidiane riusciva comunque a offrire degli spunti molto originali, Become Human sa costantemente di già visto.

Detroit: Become Human, la recensione

Non è mai facile innovare nel campo della fantascienza e, in particolare quando si arrivano a toccare i concetti di intelligenze artificiali che si umanizzano e robot, androidi, replicanti, che si mescolano agli umani, ci vuole un attimo ad apparire scontati. Sia chiaro che non mancano alcuni colpi di scena (seppure, purtroppo, telefonatissimi) e almeno una manciata di situazioni molto toccanti e interessanti grazie al modo in cui David Cage le affronta con la sua scrittura, ma rimane il dato di fatto di una storia che non sembra mai allontanarsi dai confini di un genere già enormemente abusato tra libri, film e serie TV, anche molto recenti.

Premi uno, due, tre pulsanti contemporaneamente

Riprendendo ed evolvendo quanto visto in Heavy Rain, anche in Detroit: Become Human il gioco procede attraverso una struttura a scene dal taglio molto cinematografico che il giocatore può "alterare" in funzione delle decisioni prese e delle azioni svolte. Tendenzialmente abbiamo sempre un incipit o un punto di ingresso che può dipendere da quanto fatto in una delle scene precedenti, poi c'è lo svolgimento del livello vero e proprio con tutto il suo carico di cause ed effetti e infine un epilogo che a sua volta può avere ripercussioni su quello che incontreremo successivamente. Rispetto a un qualsiasi titolo Telltale, qui le conseguenze sono molto più palpabili e non riguardano soltanto le opzioni di dialogo selezionate entro lo scadere del tempo ma comprendono soprattutto le azioni fisiche che saremo chiamati a svolgere costantemente e che, nei momenti più concitati, potranno anche avere conseguenze fatali sui tre protagonisti o sui numerosi personaggi secondari che incontreremo durante l'avventura.

Detroit: Become Human, la recensione

Proprio in merito ai numerosissimi bivi che affronteremo sul nostro cammino, ci sono due elementi che riguardano la struttura del gioco che dobbiamo assolutamente citare. Prima di tutto Detroit: Become Human offre un livello di difficoltà selezionabile sia all'inizio che durante il gioco e che permette di affrontare l'avventura anche in una modalità molto semplice dove i quick time event più frenetici, tendenzialmente quelli che riguardano i combattimenti o gli inseguimenti, vengono eliminati o pesantemente ridotti nella loro complessità. In secondo luogo, al completamento di ogni scena potremo osservare una sorta di mappa-diagramma contenente tutte le scelte potenziali di quello scenario, con i vari bivi e i loro esiti. Il sistema è studiato con l'obiettivo di stimolare la rigiocabilità visto che sarà possibile leggere nel dettaglio solo le azioni che abbiamo concretamente effettuato, mentre tutte le altre saranno "bloccate" e nascoste dietro dei semplici puntini di sospensione. Nella nostra fase di recensione abbiamo impiegato circa quindici ore a completare Detroit: Become Human riaffrontando una manciata dei più di 30 capitoli che compongono la storia e tentando di vedere almeno tre differenti epiloghi. Tenete anche a mente che il titolo non permette in alcun modo di saltare dialoghi e cutscene, spesso obbligandovi a tediosi deja-vu di situazioni anche molto ripetitive.

Detroit: Become Human, la recensione

E arriviamo proprio a discutere di questi quick time event, la proverbiale croce e delizia. In Detroit possiamo ritrovare l'intera compilation di quanto già incontrato in Heavy Rain: pulsanti da premere al momento giusto durante le situazioni più concitate, oppure da tenere premuti a lungo in combinazioni via via più complesse per simulare situazioni di stress o fatica; ogni tipologia di rotazione degli analogici per interagire con maniglie, ingranaggi, serrature. Non manca persino l'uso del giroscopio del sixaxis per una manciata di interazioni fisiche come la possibilità di saltare e del touchpad del Dualshock di PlayStation 4 che diventa la superficie da toccare per alcune attività più "artistiche" come suonare un pianoforte oppure disegnare dei graffiti. È davvero complesso giudicare positivamente la decisione di Quantic Dream di non spostarsi di un millimetro dall'elemento più criticato dei titoli precedenti e non possiamo nascondere la sensazione di ripetitività e talvolta persino di anacronismo, che si prova alla ventesima porta da aprire oppure al movimento convulso da fare con il pad per smontare un bio-componente da un androide. Ma d'altra parte è ormai evidente che per David Cage questo è l'unico modo esistente per narrare una bella storia dal taglio cinematografico molto marcato: al giocatore viene sì richiesto di intervenire ma sempre e soltanto con comandi basici ed effettuati col giusto tempismo.

Detroit: Become Human, la recensione

Ovviamente, oltre ai QTE, c'è sempre la possibilità di muoversi liberamente all'interno dei vari scenari, tutti di dimensioni abbastanza contenute e architettati in modo da mantenere il giocatore all'interno di piccoli recinti interattivi. Inoltre, nel caso di Connor, avremo accesso anche a una manciata di sezioni investigative dove dovremo analizzare le scene del crimine, mettere in evidenza gli indizi, analizzarli uno per uno e in questo modo ricostruire quello che è concretamente avvenuto così da poter, eventualmente, trovare il colpevole e magari addirittura catturarlo. Si tratta di una variazione del gameplay che, nonostante possegga un'evidente semplicità e linearità di fondo, sa essere molto stuzzicante e a tratti anche parecchio soddisfacente visto che i risultati di una indagine compiuta in modo esemplare hanno sempre ripercussioni notevoli sui bivi sbloccati dal giocatore.

La tecnologia ci seppellirà

Il dualismo valutativo che permea questa nostra recensione ha qualche ripercussione anche sul fronte tecnico. Detroit: Become Human ha un dettaglio grafico e soprattutto un design artistico semplicemente eccezionali. È ovvio che realizzare scenari così chiusi in termini di possibilità di esplorazione offrendo al contempo un'esperienza che, per quanto ricca di bivi e di scelte, è particolarmente lineare, aiuta a spingere verso l'alto la qualità del rendering. Dobbiamo però anche riconoscere che il lavoro fatto sulla modellazione facciale dei personaggi e sulla loro espressività ci ha davvero convinto, soprattutto per quello che concerne i tre protagonisti e una manciata di personaggi secondari che davvero spiccano anche in confronto ad altre produzioni recenti molto blasonate. Allo stesso tempo però, questi stessi personaggi sono meno credibili nella loro fisicità per delle animazioni eccessivamente legnose e soprattutto per un effetto "robotico" dei movimenti che restituisce un feeling da "manichino". Gli ambienti di gioco sono in larghissima parte splendidi e popolati da numerosissimi dettagli anche se l'interazione con essi è ridotta.

Detroit: Become Human, la recensione

Abbiamo affrontato l'intera esperienza di Detroit: Become Human su PlayStation 4 Pro e, pur mancando delle opzioni grafiche per impostare, ad esempio, la precedenza della risoluzione sul frame rate, il titolo si è sempre mantenuto molto fluido e ci è apparso ben ancorato ai 30 frame al secondo. Purtroppo non siamo in grado di valutare se la risoluzione è in 4k nativa ma l'impatto visivo, HDR compreso, è assolutamente piacevole. Non ci ha invece convinto, completamente, la gestione della telecamera che troppe volte entra in conflitto con il comando necessario ad aprire porte e armadi vari. Essendo quest'ultimo relegato all'analogico destro, lo stesso che serve a spostare l'inquadratura, capiterà tantissime volte di girare la telecamera invece di avviare l'animazione di apertura del mobilio o, al contrario, ci si ritroverà a interrompere un'animazione appena avviata perché in realtà si stava cercando di spostare la telecamera. In un paio di situazioni concitate l'effetto ci ha generato una sana dose di frustrazione.

Detroit: Become Human, la recensione

Assolutamente ottima la colonna sonora con dei brani di accompagnamento molto piacevoli che fanno largo uso di archi in grado di restituire un certo feeling fantascientifico alla Inception, Blade Runner e Interstellar uniti a tappeti musicali di chitarra e pianoforte più delicati e rilassanti. Meno positivo il nostro giudizio verso il doppiaggio in italiano a causa di qualche problema con il missaggio dei volumi audio che talvolta rende poco chiare le parole pronunciate dai personaggi e soprattutto per la scelta di alcuni attori veramente poco nella parte. A titolo informativo Detroit consente di impostare la lingua del doppiaggio in modo disgiunto da quella dei sottotitoli e, ad esempio, sarà possibile giocarlo con l'audio in inglese e i testi in italiano. Per una volta, tra l'altro, è anche possibile impostare la grandezza dei sottotitoli.

Conclusioni

Multiplayer.it
ND
Lettori (43)
8.5
Il tuo voto

Anche se con Detroit: Become Human siamo lontani dal pathos e dalle trovate narrative di Heavy Rain, il gioco è comunque in grado di intrattenerci con una bella e piacevole storia da ascoltare, vivere e alterare con le proprie scelte, forte di un comparto visivo ed estetico assolutamente eccezionali e con una buona dose di rigiocabilità. Vi dovete però approcciare a questo titolo ben consapevoli che il suo gameplay fatto esclusivamente di pulsanti da premere al momento giusto, potrebbe risultarvi indigesto o poco divertente. Se questo, per voi, non è un deterrente all'acquisto, allora procedete tranquilli perché Detroit saprà sicuramente coinvolgervi.

PRO

  • Ogni scena è incredibilmente ricca di bivi e alternative in grado di stimolare la rigiocabilità
  • Il rendering dei visi e le espressioni facciali sono splendidi
  • Non mancano alcune scene particolarmente toccanti...

CONTRO

  • ...ma più in generale storia, atmosfera e tematiche sono già state affrontate molte volte nei racconti di fantascienza
  • Il gameplay è quasi completamente relegato ai quick time event