Gli Stati Uniti sono una nazione storicamente e culturalmente giovane, fondata da pionieri, cowboy e presidenti. Dovendo costruirsi una mitologia hanno guardato alla Frontiera e le loro divinità le hanno letteralmente plasmate su carta e celluloide. Supereroi dei fumetti e star del cinema sono diventati delle icone e Hollywood è il loro Olimpo. Nello scrivere la recensione di Hollywood, miniserie in sette episodi creata da Ryan Murphy, questa premessa è essenziale.
Disponibile dal primo maggio su Netflix, Hollywood è la risposta televisiva di Ryan Murphy al cinema dell'ultimo Quentin Tarantino: creata insieme a Ian Brennan (con cui ha già scritto Glee, Scream Queens e The Politician), la miniserie parte dal classico "what if" e, invece di mostrarci un mondo diverso lavorando su un futuro distopico, torna nel passato, precisamente nella Los Angeles del secondo dopoguerra, per riscrivere la storia e il sogno americano.
Benvenuti a Dreamland
Da venti anni portavoce della diversità in televisione, Ryan Murphy ha esplorato ogni genere: il medical drama con Nip/Tuck, il musical con Glee, l'horror con American Horror Story e Scream Queens, ha scritto titoli a sé come Pose e The Politician. Due sono le costanti delle sue creature, per quanto diverse tra loro possano sembrare: l'ironia e l'attenzione per tutti quei temi e categorie umane poco rappresentati al cinema e in televisione.
Rappresentazione vuol dire anche visibilità al cinema e in tv e Murphy ne ha fatto la sua crociata personale. Una battaglia portata avanti in modo molto intelligente: ogni suo progetto è alla base fortemente politico, ma allo stesso tempo è intrattenimento puro. Hollywood è forse la summa di questo suo percorso. I cambiamenti culturali avvengono in due modi: o con gesti e avvenimenti eclatanti (pensiamo al gesto di Rosa Parks nel 1955, quando si rifiutò di cedere il posto a un bianco su un autobus, o agli atleti Tommie Smith e John Carlos, che, alle Olimpiadi del 1968 alzarono il pugno con il guanto dei Black Panthers sul podio) o con un lungo lavoro di educazione e dialogo. Le serie tv di Murphy appartengono a questo secondo gruppo.
In Hollywood questo intento è chiarissimo: raccontando la storia di un gruppo di giovani di belle speranze che sognano di lavorare nel cinema, l'autore mescola realtà e finzione, affiancando a persone realmente esistite personaggi di finzione. E insieme gli fa riscrivere la storia. Cosa sarebbe accaduto se nella Hollywood degli anni '40 a produrre, scrivere e dirigere i film fossero stati non i "maschi bianchi etero" ma donne, gay e persone di colore?
“There’s no business like show business”
Ritorniamo alla premessa: in un paese in cui supereroi dei fumetti e stelle del cinema sono come divinità, riscrivere la loro storia significa giocare con la memoria collettiva di un intero popolo. Un'intuizione con cui hanno giocato anche gli autori di South Park, Trey Parker e Matt Stone, con i tre episodi dedicati a Imaginationland (S11 E10,11,12): lì dei terroristi islamici pensano di distruggere l'America distruggendo la loro immaginazione. Ryan Murphy invece crea direttamente una realtà alternativa.
Per farlo ribalta ogni convenzione, portandoci a Dreamland: non il luogo dove si realizzano i sogni, ma una pompa di benzina dove aspiranti attori si prostituiscono. Jack Castello (David Corenswet), veterano di bell'aspetto che sogna di recitare, è uno di loro: intrappolato in un matrimonio che prima della guerra sembrava la cosa giusta da fare, si lascia trascinare in questo giro di soldi facili e sesso, pur di entrare in contatto con il "giro che conta". È così che conosce Archie Coleman (Jeremy Pope), scrittore gay e di colore che ha scritto una sceneggiatura, Meg, che parla di un'attrice che si getta dalla scritta Hollywood perché non è riuscita a realizzare il suo sogno.
Arrivata nelle mani dell'aspirante regista Raymond Ainsley (Darren Criss), che nasconde le sue origini asiatiche grazie a un aspetto occidentale, la sceneggiatura lo conquista, tanto da spingerlo a proporlo come suo primo film a un grande studio di produzione. Tutto si blocca quando Raymond propone come protagonista la sua fidanzata, Camille Washington (Laura Harrier), che in quanto donna di colore è relegata a parti da domestica e cameriera. Quando però il capo dello studio ha un infarto, è la moglie Avis Amberg (Patti LuPone) a prendere le redini dell'azienda. E tutto cambia.
La magia del set, l'entusiasmo di talenti giovani e la consapevolezza di star facendo qualcosa di importante: giocando sapientemente con l'immaginario e i sentimenti dello spettatore, Ryan Murphy ci porta in un mondo troppo bello per essere vero, in cui tutti sono aperti e comprensivi, in cui l'arte non è solo business ma ma cambiamento sociale e culturale. La magia che vediamo però, invece di essere melensa, è uno schiaffo: quanto sarebbe più bello e soprattutto libero un mondo così? Uno dei motti di Walt Disney era: "Se puoi sognarlo puoi farlo". Murphy ci sta dicendo, tra una lacrima e l'altra, di darci una mossa e fare la scelta giusta. E lo dice in particolare modo a chi ha i mezzi e il potere per cambiare realmente le cose: quando arriva l'occasione di cambiare il mondo bisogna coglierla, senza pensare alle conseguenze immediate. La storia ci darà ragione.
Jim Parsons è spaventoso nel ruolo dell’agente Henry Willson
Attori uomini che cedono a ricatti, vengono fatti sentire inadeguati per la loro immagine, attrici bionde e belle che non sono per niente oche ma artiste consapevoli: Murphy ribalta i classici stereotipi e ci fa conoscere la versione omosessuale di Harvey Weinstein. Tra i personaggi reali prestati al racconto c'è anche Henry Willson. Agente di molte star dell'epoca, come Lana Turner, Willson aveva rapporti con la malavita ed era dispotico con i suoi clienti, in particolare gli uomini, costringendoli ad avere rapporti con lui. Gay di nascosto, promuovendo il canone estetico del ragazzo americano tutto muscoli e sorriso perfetto (passato alla storia come "beefcake", letteralmente torta di carne) ha dato vita a tutto ciò che non era. Tra le sue creature anche Roy Harold Scherer Jr.: campagnolo che ha trasformato nella star Rock Hudson.
A interpretarlo un inquietante Jim Parsons, molto diverso dallo Sheldon Cooper di The Big Bang Theory: un misto di frustrazione, invidia e cattiveria, rappresenta l'altra faccia di Hollywood, quella oscura e per niente scintillante, fatta di lavoro sporco e compromessi. Willson è tutto ciò che Murphy combatte: non solo il conformarsi alle ingiustizie della società, ma alimentarle dall'interno, andando contro persino alla propria natura e ai propri diritti.
Conclusioni
Multiplayer.it
8.0
Come scritto nella recensione di Hollywood, Ryan Murphy riscrive il passato e ci porta nella Los Angeles anni '40: la sua Hollywood è quella che avrebbe potuto essere ma non è mai esistita. Accanto a persone reali, come la star Rock Hudson e il suo agente Henry Willson, vediamo una schiera di personaggi di finzione, che cercano di realizzare il proprio sogno: lavorare nel cinema. Il loro destini si intrecciano quando cercano di realizzare Meg, film con protagonista un'aspirante attrice che si uccide gettandosi dalla scritta Hollywood. Amori, tradimenti, riscatto sociale: si ride e si piange sognando un mondo che non c'è più e quello che potrebbe essere.
PRO
- La magia della Golden Age di Hollywood è sempre affascinante
- Il cast è composto da attori, sia giovani che più esperti, di altissimo livello
- Si ride e si piange
CONTRO
- Se non si conosce un po' di storia del cinema, molti riferimenti potrebbero non essere colti