La domanda che bisognerebbe farsi prima di guardare la quarta stagione di Love, Death & Robots è: "cosa mi aspetto"? Perché ci siamo abituati bene ad amare, morire e robottare sin dal 2019, quando la prima stagione della serie Netflix aveva insegnato al pubblico il significato della parola "antologia". Poi è arrivata la seconda, poi la terza, poi si osava ancora, poi meno e insomma, questa altalena colorata, folle, sfrontata, breve eppure eterna comunicava e si confrontava, perdendo il fascino del "racconto singolo" talvolta e acquisendo più il mistero del dubbio. Molti episodi sembravano inconcludenti, diciamolo, e molto più vezzi artistici che, seppur immensi e disarmanti, avevano una struttura narrativa meno impattante rispetto ai primi capitoli. La grande continuità? I gatti. Fateci caso, ma in ogni stagione troverete sempre un gatto almeno in un episodio. E il più delle volte, dove c'è un gatto, l'episodio non scade mai.
Dopo tre anni di attesa per una nuova stagione, con dieci episodi che spaziano dal cyberpunk al soprannaturale, dal grottesco all'epico, potete star sereni che troverete sempre altri gatti. Ma questo basterà?
Se i volumi precedenti avevano consolidato la fama dell'antologia come fucina di corti animati visionari, questo quarto capitolo ne rappresenta la sfida più ambiziosa e insieme la più controversa: tentare di risultare ancora innovativa, convincente, originale, meno ambiziosa e più sostanziosa (con gatti a parte). Da un lato, gli autori spingono la sperimentazione visiva e narrativa ai limiti; dall'altro, emergono episodi che sembrano arrancare, privi della tensione drammatica e della suggestione che hanno reso celebre la serie. Forse complice anche l'uscita di Secret Level su Amazon, questa volta la serie attinge spesso al mondo videoludico: non si limita infatti a offrire semplici visioni spettacolari o spaccati di futuro che paiono usciti dalla fusione di autori classici di fantascienza, ma cita esplicitamente numerosi artisti e opere dei videogames. Non è la prima volta... sarà l'ultima?
Un’apertura in grande, rosso, piccante stile
La prima sorpresa della quarta stagione è il primo episodio coi Red Hot Chili Peppers, diretto dallo stesso David Fincher con la tecnica Supermarionation. In un corto surreale, le marionette fondono nostalgia da videoclip anni '60 con l'irriverenza tipica della serie. Ma la scelta di esordire così non è casuale: Fincher ribadisce il legame tra animazione e musica, temi cari al pre-digitale, e imposta subito un tono mordace, spiazzante.
L'effetto digitale su pupazzi di stoffa e legno crea un'atmosfera inquietante e bizzarra, ma lascia anche intendere che la stagione punterà più sulla forma, l'estetica e la grafica che sulla sostanza narrativa. Agli spettatori l'ardua sentenza come valutare la metafora dei concerti, dello spettacolo, di cantanti e pubblico, appesi tutti a dei fili, senza mai vedere chi li muove.
I rimandi videoludici di Love, Death & Robots Volume 4
Non vogliamo, però, raccontare episodio per episodio i pro e i contro, analizzando nel dettaglio ogni messaggio semiotico e artistico, in quanto rovinerebbe gran parte della magia della serie (e, diciamolo, sarebbe eccessivamente lungo da leggere). Quello che vogliamo sottolineare, sono gli elementi più evidenti, più originali, che siano lodevoli o meno.
Si può dire che la quarta stagione spicca per l'audacia visiva, grazie a studi come Blur (The Screaming of the Tyrannosaur), Polygon Pictures (Spider Rose) e Titmouse (400 Boys). In "How Zeke Got Religion", le esplosioni divine su sfondi di guerra sembrano tratti da un DLC di Destiny 2. L'episodio, diretto da Mic Graves per lo studio Titmouse e adattato da un racconto di John McNichol, mischia horror bellico e leggende angeliche in una seconda guerra mondiale "alternativa". L'animazione realistico-pittorica di Diego Porral risalta nei dettagli della battaglia e dell'orrore.
Al contrario, "Smart Appliances, Stupid Owners" (di Patrick Osborne) ritrova la freschezza comica di una volta: robot domestici in claymation che si ribellano ai padroni umani nelle cucine e nei salotti, con tempismo perfetto e dialoghi esilaranti.
Un omaggio alla commedia slapstick che ricorda "When the Yogurt Took Over" della prima stagione, anche se manca la stessa profondità sociale e riflessiva. E quindi tutto qui? È evidente che questa quarta stagione voglia ricalcare storie delle altre stagioni: "Close Encounters of the Mini Kind" prosegue lo stile di "Night of the Mini Dead" della terza stagione e spesso questo senso di coerenza interna è un punto di forza: registi come Jennifer Yuh Nelson (nota per Kung Fu Panda) giocano con archetipi già rodati, rinnovandoli con nuovi twist narrativi. Sul fronte 2D, Titmouse e Infinitum Nihil (studio fondato da Johnny Depp) realizzano "400 Boys", un post-apocalittico violento in cui bande di giovani si contendono risorse in un tunnel, con uno stile grafico identico e che denota la stessa regia dell'episodio "Ice" della seconda stagione.
Anche "The Other Large Thing" segue la lore che abbiamo già avuto modo di approfondire in ogni stagione sui gatti che hanno conquistato il Pianeta, qui vediamo esattamente il "come" e il probabile "perché" robot e felini vadano così d'accordo nonostante vivano in un mondo in rovina.
Dove la quarta stagione osa proprio come faceva un tempo è nei contenuti originali: nell'arena futuristica di "The Screaming of the Tyrannosaur" ricorda da vicino l'estetica primitiva e brutale di Turok: Dinosaur Hunter (Acclaim, 1997). Le texture spesse, gli ambienti arenosi punteggiati da macerie tecnologiche e la regia di Alberto Mielgo si rifanno ai livelli più iconici di Turok, dove il cacciatore solitario si trova a combattere dinosauri armato solo di fucile e lame energetiche. La scena in cui le zanne gigantesche balzano in primo piano sfrutta lo stesso impatto visivo dei passaggi a distanza ravvicinata tipici dei "dino‑encounter" degli sparatutto in prima persona anni '90, qui ricreati però con una fluidità e un dettaglio aggiuntivi.
L'episodio feline‑horror "For He Can Creep", dove un gatto si contende con Satana l'anima del suo umano a suon di citazioni londinesi e iconici brani di musica classica del calibro di Vivaldi, si riallaccia all'esperienza di Stray (BlueTwelve Studio, 2022). In entrambi i casi, il protagonista felino si muove agilmente tra cunicoli e rovine urbane, svelando dettagli nascosti e relitti tecnologici. La regia di Emily Dean sfrutta angolazioni basse, quasi "da gatto", e un audio ambientale ricco di sussurri - esattamente come il motore sonoro di Stray, studiato per riprodurre i movimenti felini su superfici diverse.
Un futuro infinito tra amore, morte e robot
La quarta stagione di Love, Death & Robots incanta e frustra in egual misura. I pro principali risiedono nell'audacia visiva, nella libertà creativa concessa ai registi e nella capacità di usare sequenze di azione, colpi di scena inquietanti e sceneggiature scritte da autori del calibro di J.T. Petty. Ma no, questo non basta. O almeno, non basta più. Il ricordo della poetica e della sfida (vinta) ancora dalla prima stagione, è un'eco distante: alcuni episodi tradiscono un desiderio di sperimentare che finisce per tradire l'efficacia narrativa.
Pur con le sue magagne, Love, Death & Robots non è una serie da dimenticare. Perché la pretesa non è più quella di intrattenere, ma di creare. Love, Death & Robots è un trionfo di creatività. Un laboratorio visionario dove l'animazione non conosce confini. I dieci episodi rappresentano un mosaico di stili e generi che, a dispetto del giudizio complessivo della struttura appena tiepida, restano un invito a immaginare nuovi mondi, a mescolare passato e futuro, a domandarsi fino a che punto il fantastico possa parlare di noi. E sì, qualche episodio forse non resterà negli annali, ma la parte migliore della serie non è la sua criticità, ma che non smette di osare.
Conclusioni
Multiplayer.it
7.0
La quarta stagione di Love, Death & Robots su Netflix si conferma un laboratorio visivo d'avanguardia, con dieci episodi che spaziano dal grottesco al soprannaturale, dall'action al filosofico. Non mancano riferimenti interni alle stagioni passate, oltre ai team di Blur Studio, Polygon Pictures e Titmouse che portano in scena animazioni che vanno dal fotorealismo cinematografico ai colori saturi da cel‑shading, mentre registi di caratura internazionale - Jennifer Yuh Nelson, Emily Dean, Patrick Osborne - danno corpo a visioni spiazzanti. Pur celebrando la sperimentazione, alcuni episodi risultano squilibrati: esplorano con coraggio nuovi ibridi artistici ma a volte pagano il prezzo di trame meno coinvolgenti. Un'esperienza stimolante, graffiante ma estremamente volubile e imprevedibile... come un gatto.
PRO
- Visione estetica sempre estasiante, che dà spazio a stili artistici diversi e tutti invitanti
- Citazioni "multimediali" che spaziano da opere videoludiche a gruppi musicali
- I gatti
- I gatti che sfidano Satana
CONTRO
- Alcuni episodi mancano di tensione narrativa e appaiono troppo criptici