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Un mercato tutto uguale

Esplorare nuovi segmenti di mercato e proporre un'offerta varia al pubblico potrebbe far scorrere nuova linfa nell'industria

SPECIALE di Giordana Moroni   —   29/11/2017

Nonostante sia passato già qualche tempo, la decisione da parte di Electronic Arts di eliminare momentaneamente le microtransazioni da Star Wars Battlefront II è uno di quegli avvenimenti di cui parleremo ancora a lungo ma che soprattutto creano un precedente pericolosissimo nell'industria. Le pressioni che pare Disney abbia esercitato su EA dopo la marea di commenti velenosi vomitati sul gioco nella settimana d'uscita rischia di autorizzare in futuro i giocatori a comportarsi nello stesso modo, mettendo in difficoltà l'intero mercato: a prescindere dal motivo, quel passo indietro agli occhi del pubblico sembra una tacita ammissione di colpa, un chinare il capo e affermare in modo silenzioso che coloro che hanno screditato ferocemente il gioco in fin dei conti avessero ragione, che le microtransazioni sono una fregatura. Ovviamente la situazione non poteva rimanere invariata e una limatura del bilanciamento del gioco - con conseguente revisione dell'implementazione delle microtransazioni - era d'obbligo, ma fare così violentemente marcia indietro è stato davvero azzardato. Per comprendere perché ci si è spinti fino a questo punto bisogna capire dove affondano le radici del problema e parte di queste traggono nutrimento da una visione errata del concetto di ottimizzazione.

Un mercato tutto uguale

Lo stesso terreno di gioco

In un nostro speciale di qualche settimana fa sottolineavamo come, nello stato attuale delle cose, l'unica soluzione per eliminare le transazioni post acquisto senza portare in perdita i guadagni di software house e publisher fosse semplicemente alzare il prezzo dei singoli giochi; una soluzione che in pochi accetterebbero di buon grado quindi l'unica alternativa sostenibile è quella di ridimensionare i progetti dei tripla A, rendendoli meno costosi sul lato produttivo. Se i giocatori non sono disposti a pagare novanta euro un videogioco, difficilmente dall'altra parte c'è la volontà di riconsiderare dimensioni e investimenti di un tripla A. Ebbene, forse basterebbe semplicemente lavorare su un segmento di mercato diverso. È difficile negare che i trend di vendita e l'apprezzamento del pubblico di massa abbiano portato nel tempo a una fossilizzazione dei publisher: dopo aver riscontrato con successo il valore di strumenti come DLC, season pass fino ad arrivare alle terribili microtransazioni, i produttori non hanno cercato di affiancare a queste soluzioni delle alternative, preferendo fermarsi in pianta stabile su questo modello di business, dando vita a una conseguente saturazione del mercato.

Un mercato tutto uguale

Modalità di vendita e meccaniche di gioco sono, nei videogiochi moderni, due elementi intimamente collegati ed è chiaro che prediligendo un determinato tipo della prima categoria si finisce per generare un moltitudine di giochi simili tra loro. Questo non vuol dire plagiare titoli sviluppati e prodotti da altri ma è chiaro che l'obiettivo dei grossi publisher è presto diventato proporre al pubblico un'alternativa all'offerta della concorrenza. Un problema che sulla carta non esiste nemmeno visto che parliamo delle basi del libero mercato, ma i videogiochi non sono una merce che ben si sposa con questa filosofia economica, perché a rendere appagante un titolo non è esclusivamente il modello di vendita che gli ruota attorno, anzi, quello è un elemento che al giocatore non interessa nemmeno nel momento in cui questo non interferisce con l'esperienza ludica. Il problema è probabilmente un'errata interpretazione del concetto di ottimizzazione dove, invece di canalizzare le proprie risorse sfruttando un segmento di mercato non ancora battuto, si preferisce operare manovre volte a massimizzare i guadagni in quel segmento di mercato dove c'è uno scontro diretto con gli avversari.

Un mercato tutto uguale

Anch'io ne voglio una fetta

In sintesi: meglio impegnarsi per battere la concorrenza sullo stesso terreno piuttosto che fare qualcosa di totalmente diverso. C'è chi ovviamente non demorde, immaginando una soluzione intermedia e ricercando la novità pur rimanendo nel campo di ciò in cui si riesce meglio, come CD Project Red: una recente intervista il CEO Adam Kicinski ha rivelato che Cyberpunk 2077, oltre a prevedere una ricca campagna in single player, offrirà anche una modalità online plasmata sul modello game as a service. "Non preoccupatevi. Quando pensate a Cyberpunk 2077, pensate più o meno a The Witcher 3: grande single player, mondo aperto, gioco di ruolo incentrato sulla narrazione. "Nessuna trappola. Otterrete quello per cui pagherete, niente s*******e, solo un videogiocare onesto come quello di Wild Hunt. Noi lasciamo l'avidità ad altri" riporta un tweet dello sviluppatore. Tralasciando la puzza di populismo da campagna elettorale che emana una dichiarazione di questo tipo, il fatto che lo studio polacco stia cercando delle soluzioni alternative sostenibili per supportare l'online di Cyberpunk 2077 è in un certo senso confortante, ma rimangono per il momento un mucchio di belle parole visto che CD Project ammette senza troppi problemi di volersi sedere alla tavola imbandita dei game as a service, dove in tanti attualmente stanno gozzovigliando: chi sono io per non assaggiare una fetta di quella torta che tutti mangiano? La fine di un banchetto si conclude sempre con pance piene e piatti vuoti, ma non siamo arrivati ancora al punto in cui il mercato non ha più niente da offrire, di margine di profitto ce n'è ed in abbondanza, qui si tratta di capire il come i publisher vogliono riempirsi la pancia. Come dicevamo, l'obiettivo è sempre lo stesso: massimizzare gli incassi senza rischiare di spostarsi dal modello di vendita attuale. L'errore non è solo il non voler scandagliare il mercato per vedere cosa offre, ma anche continuare a ragionare su incassi massimi in modo generale. Invece di mirare troppo in alto creando un gioco dal grande potenziale redditizio, nel mercato attuale la strategia migliore potrebbe essere quella di frazionare gli investimenti puntando su più giochi non per forza di piccola entità (rimaniamo sempre nel mercato tripla A) ma diversificando l'offerta; se l'obiettivo è guadagnare 100 è meglio farlo con un singolo gioco o con due giochi che guadagnano 50 a pari prezzo di sviluppo? Preso singolarmente ogni singolo titolo guadagnerebbe meno delle previsioni desiderate ma alla fine è il totale che conta.

Un mercato tutto uguale

Perché nessuno pensa a KOTOR?

Applichiamo con un esempio un po' azzardato questo concetto? Torniamo in casa Electronic Arts e analizziamo la situazione. EA si aggiudica le licenze di Star Wars portando a casa praticamente la gallina dalle uova d'oro: mette quindi al lavoro DICE su Battlefront e simultaneamente Visceral e Respawn. Come risultato Battlefront 2 viene accolto in modo tumultuoso dal pubblico, il progetto di Visceral salta portando alla conseguente chiusura dello studio mentre il progetto di Respawn rimane ancora un'incognita, ma giusto per andare sul sicuro EA compra lo sviluppatore per 455 milioni di dollari. Sulla questione Visceral se n'è ampiamente parlato e il problema è da ricercare più nella qualità del titolo (traballante a quanto pare fin dal principio), ma chiaramente la dichiarazione fatta da EA su Ragtag dove viene menzionato il "tener traccia del significativo cambiamento di mercato" non può che lasciare forti dubbi. Respawn invece è uno studio fondato da sviluppatori che arrivano da una precisa realtà videoludica, quella degli shooter, e hanno sulle spalle un unico franchise di successo, sempre uno shooter. Respawn fortunatamente è anche un team di talento che ha il potenziale per stupire però, in questo particolare scenario, non bisogna essere dei fini economisti per capire che qualcosa non va, che c'è qualche sovrapposizione e che l'unico titolo che poteva fare la differenza è stato cancellato senza essere sostituito con uno più solido nel breve termine: il progetto infatti rimbalza nelle mani di EA Vancouver mentre in casa Motive per il momento tutto tace, almeno fino al 2021. In tutto questo, e qui c'è forse l'anello mancante, Bioware è al lavoro sul mastodontico Anthem presentato all'E3 di quest'anno: nonostante le notizie siano ancora scarse, sono bastati pochi minuti di presentazione per capire che la nuova creatura Bioware sarà il diretto concorrente di Destiny, e la domanda che sorge spontanea è: perché?

Un mercato tutto uguale

Volendo guardare il tutto sempre sotto l'ottica del raggiungere il risultato finale diversificando la proposta e colpendo segmenti di mercato meno battuti, perché impegnare Bioware per creare un concorrente di Destiny quando con le licenze Disney si poteva pensare ad un nuovo Knights of the Old Republic? Certo, non parliamo di un gioco capace di generare guadagni stratosferici (mentre Anthem ha un potenziale enorme, e per questo motivo ci sta lavorando il team di sviluppo "buono" di Bioware e non quello di Mass Effect: Andromeda), ma siamo sicuri sarebbe andato così male? Col senno di poi, quando vedremo Anthem, sapremo se la scelta di mettere Bioware al lavoro su quel titolo è stata giusta, ma l'alternativa di un nuovo KOTOR poteva essere altrettanto esatta. Realizzare un titolo di quel calibro senza voler cedere al lato oscuro, evitando ad esempio di estrapolare dei capitoli dalla trama vendendoli come DLC, e lasciando che il mestiere di Bioware facesse il resto, avrebbe regalato un titolo che difficilmente sarebbe stato un flop. Un nuovo KOTOR non solo avrebbe aggiunto varietà nell'offerta di EA ma poteva addirittura essere la panacea al veleno scatenato da Battlefront II perché tutti i giocatori insoddisfatti e lamentosi avrebbero scelto un'esperienza di gioco (e relativo modello di vendita) agli antipodi di Battlefront, avrebbero avuto l'alternativa... e poi parliamo di KOTOR, da non sottovalutare il fattore altamente remunerativo della nostalgia. Al contrario, un Anthem che esce ad anni di distanza dall'arrivo sul mercato di Destiny forse sembra già segnato da un'ascesa faticosa, ma la strategia di vendita è senz'altro giusta: sicuramente coloro che non hanno apprezzato il titolo di Bungie potranno trovare in Anthem una variante ed è altrettanto possibile che possa convincere nuovi giocatori ad unirsi alla community, e potrebbe addirittura cattura i giocatori orfani di Destiny se non sovrapposti temporalmente. Tutto il discorso di KOTOR invece funziona sulla carta con una quantità di se, forse non conteggiabili in uno scenario di mercato realistico, ma provare a proporre varietà esplorando soluzioni diverse non è un pensiero così stravagante, anche perché ci sono stati piccoli esempi nel 2017 che hanno dimostrato che questo approccio non è così folle. Un gioco come Nier: Automata ad esempio ha venduto inaspettatamente più di due milioni copie complessivamente su PC e PlayStation 4, un risultato che nessuno si aspettava e che di sicuro è da imputare all'originalità del lavoro fatto dal team di sviluppo perché, diciamolo: dov'è la concorrenza di un gioco come Nier: Automata? Appunto.