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Il caso Facebook e l'indolenza dell'utenza

Cerchiamo di capire ciò che è successo e dov'è il problema

SPECIALE di Simone Tagliaferri   —   14/04/2018

Ad aprile 2010 Facebook lancia la piattaforma Open Graph che consente alle applicazioni di terze parti di chiedere agli utenti l'autorizzazione per accedere ai loro profili, alle loro informazioni personali e a quelle dei loro amici, senza che gli amici ne sappiano nulla. Il sistema dovrebbe essere abbastanza chiaro, ma facciamo un esempio: Mario, Kratos e Master Chief sono amici su Facebook. Kratos accede a un'applicazione per conoscere la sua affinità di coppia con un minotauro. Dato il suo consenso per l'accesso ai dati, l'applicazione legge non solo le informazioni di Kratos, ma anche quelle degli inconsapevoli Mario e Master Chief. Di fatto il nome, il sesso, la religione, la situazione sentimentale e tutti gli altri dati resi pubblici su Facebook entrano nel database della società che ha realizzato l'applicazione. Si tratta di un sistema geniale nella sua semplicità, che consente di raccogliere un'enorme quantità di dati a grande velocità, perché basta una singola autorizzazione per accedere a centinaia, quando non migliaia di profili.

Il caso Facebook e l'indolenza dell'utenza

Chi è che non ha un amico o un'amica semplice che clicca su tutte le applicazioni più insulse che girano su Facebook? Mark Zuckerberg, il patron di Facebook, dichiarò allora che i dati degli utenti non sarebbero stati a rischio, perché le società non potevano venderli a terzi. Insomma, l'idea era che ognuno dovesse raccogliere i dati da sé e usarli per sé. A nessuno venne l'idea di chiedere al re dei social chi avrebbe controllato questi dati una volta finiti in mano a una qualche azienda. E infatti...

thisisyourdigitallife

Nel 2013 Aleksandr Kogan, un accademico russo-americano di Cambridge, realizza con la sua società, la Global Science Research, un'applicazione chiamata "thisisyourdigitallife", un simpatico quanto inutile test psicologico che, in quanto tale, ebbe un grande successo. Furono in più di 300.000 a utilizzare thisisyourdigitallife. Per accedervi, ogni utente diede la sua autorizzazione alla raccolta dei dati, permettendo a Kogan di accedere a milioni di altri profili. Ovviamente non fu solo lui a sfruttare la falla di Open Graph, se così vogliamo chiamarla, ma è di lui che si sta parlando in questi giorni, quindi cerchiamo di rimanere concentrati. Comunque che la situazione fosse sfuggita di mano era chiaro sin da quell'anno, almeno dentro le segrete stanze di Facebook, visto che nel 2014 il sistema fu completamente rivisto e ogni utente doveva da quel momento fare fede per se stesso, ossia non poteva più dare il consenso per l'accesso ai profili dei suoi amici.

Il caso Facebook e l'indolenza dell'utenza

La frittata nel frattempo era fatta, perché milioni di dati erano ormai stati raccolti e le nuove regole non imponevano di cancellarli. Arriviamo a fine 2015: il Guardian accusa il candidato alle presidenziali Ted Cruz di farsi aiutare nella campagna per le Primarie dalla società Cambridge Analytica. Quest'ultima disporrebbe dei profili psicologici di milioni di utenti di Facebook. Secondo l'accusa, Cruz avrebbe sfruttato i dati per avvantaggiarsi sui suoi rivali, compreso Donald Trump. Seguendo la scia dei dati, si arriva dritti alla società di Kogan, che li avrebbe venduti a Cambridge Analytica. Facebook interviene e garantisce che Cambridge Analytica e Kogan hanno cancellato tutto. Nel 2016 però, l'ormai candidato unico Donald Trump inizia a investire pesantemente in pubblicità su Facebook, facendosi aiutare proprio da Cambridge Analytica. Nel 2017 emerge, grazie al Guardian e al New York Times, che Cambridge Analytica ha raccolto dati provenienti da più di 87 milioni di profili Facebook (inizialmente si pensava fossero molti di meno). Stando a Christopher Wylie, uno dei fondatori di Cambridge Analytica, i dati erano stati venduti alla sua compagnia dalla società di Kogan, ed erano stati utilizzati per creare dei profili "psicografici" degli utenti, in modo da inviargli online del materiale pro-Trump in un certo senso personalizzato. In realtà uno studio successivo dell'Università dell'Ohio pare aver dimostrato che i dati siano stati utilizzati più per limitare la platea degli elettori democratici che per fare propaganda agli elettori già convinti di votare per Trump. Su questo punto, comunque, la discussione è ancora aperta e si attendono ulteriori verifiche.

Il caso Facebook e l'indolenza dell'utenza

Altra accusa: i dati sarebbero stati sfruttati anche per influenzare i risultati della Brexit, ossia il referendum svoltosi nel Regno Unito per uscire dall'Unione Europea. Anche questa accusa è attualmente oggetto di indagini.

Il valore dei dati

Infine, è a marzo di quest'anno che scoppia il caso vero e proprio, con risvolti che ancora si stanno manifestando: la Federal Trade Commission (FTC) apre un'indagine contro Facebook per la violazione delle norme sulla privacy di milioni di individui registrati sul noto social. L'accusa è in realtà molto stratificata e coinvolge anche l'utilizzo improprio dei dati a fini propagandistici, e finisce per inserirsi in una polemica politica che da tempo coinvolge il presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Nei giorni successivi anche altre nazioni, tra le quali l'Italia, avvieranno indagini su Facebook. Mark Zuckerberg viene inoltre chiamato a testimoniare di fronte al Congresso degli Stati Uniti. Lo scandalo monta imperioso e il titolo di Facebook perde in borsa miliardi di dollari di valore. Zuckerberg rimane comunque al comando della società.

Il caso Facebook e l'indolenza dell'utenza

Il 21 marzo 2018 pubblica un messaggio in cui appare trasecolato: "Abbiamo la responsabilità di proteggere i vostri dati e se non siamo in grado di farlo, non meritiamo neanche di servirvi. Sto lavorando per capire esattamente cosa sia successo e per fare in modo che non accada più." Subito dopo vengono annunciate nuove strette sulla libertà d'utilizzo dei dati degli utenti da parte delle applicazioni di terze parti; andranno cancellati tre mesi dopo averli raccolti. Facebook s'impegna inoltre a revisionare tutti i dati ottenuti tramite applicazioni fino al 2014, quando era in vigore il vecchio contratto di licenza. Nel frattempo è saltata la sedia di Alexander Tayler, l'amministratore delegato di Cambridge Analytica, che ha dichiarato di volersi concentrare nel risolvere la situazione, mentre Zuckerberg è apparso di fronte ai senatori e ai deputati americani, rispondendo alle loro domande e svelando che anche i suoi dati personali sono stati violati, un contrappasso che non risolve certo la situazione. Probabilmente presto sarà chiamato a rispondere anche alle domande del parlamento europeo, visto che le risposte date a quello statunitense non sono state considerate soddisfacenti.

Ci regaliamo tutti i giorni

Al di là delle polemiche politiche e delle questioni strettamente legali, di cui si stanno occupando gli organi competenti, il caso Facebook apre uno squarcio drammatico sull'economia di internet e sull'incoscienza che la regola. Se ricostruiamo l'accaduto partendo da un punto di vista estremamente cinico, Kogan (come tanti altri) ha ottenuto i nostri dati regalandoci un po' di quell'apparentemente innocua e allegra stupidità che tanto è amata sui social network (e non solo). Milioni di persone hanno dato il loro consenso, senza sapere cosa stavano firmando e senza capirne i risvolti (noi compresi, in molti casi), subendone poi gli effetti senza accorgesi che fossero tali. In fondo la meccanica psicologica è nota: fai un test psicologico, lo condividi con gli amici per farti qualche risata e prendere qualche "Mi piace", qualcuno lo vede e fa lo stesso moltiplicando la catena. Tanta leggerezza sembra non avere prezzo, ma il conto è decisamente salato e può coinvolgere il destino di milioni di persone. I nostri dati sono beni preziosi che barattiamo per un po' di attenzione. Quanta ironia.

Il caso Facebook e l'indolenza dell'utenza

Se vogliamo essere ancora più cinici potremmo far notare che esistono interi modelli economici anche nel mondo dei videogiochi basati sulle stesse meccaniche di raccolta ed elaborazione dei dati, con successiva profilazione psicologica degli utenti. Parliamo dei free-to-play, ma anche della maggior parte dei giochi online che richiedono il mantenimento degli utenti in gioco per avere successo. Ovviamente si tratta di situazioni molto differenti, ma è indubbio che partano da presupposti simili e che facciano parte della stessa economia. Al di là di tutto, l'unica conclusione che possiamo trarre dall'intera faccenda non riguarda tanto il ruolo di Facebook, di Cambridge Analytica o di chi per loro (se hanno commesso qualche reato si spera che paghino), ma concerne il ruolo degli utenti, che come al solito finiscono per svolgere la parte degli utili idioti, non solo per aver fornito il loro dati inconsapevolmente, ma per stare tutti ancora lì a mettere mi piace e condividere stupidità nonostante abbiano ormai la verità sotto gli occhi. Ma forse sarebbe più giusto scrivere "abbiamo", visto che chi scrive non è da meno. Perché volendo l'incoscienza sarebbe anche scusabile, ma l'indolenza, che in molti casi diventa connivenza, proprio no.