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Alan Wake, dieci anni dopo è sempre lo Stephen King dei videogiochi

Alan Wake, il survival horror di Remedy, compie oggi dieci anni ma la sua capacità di riscrivere la paura è quello che lo rende un gioco senza tempo

SPECIALE di Alessandra Borgonovo   —   14/05/2020

Stephen King scrisse che "Gli incubi esistono al di fuori della ragione e le spiegazioni divertono ben poco; sono antitetiche alla poesia del terrore". In una storia dell'orrore, la vittima si chiede sempre "Perché", ma non c'è una risposta e non dev'esserci. Il mistero irrisolto rimane dentro di noi ed è ciò che ricordiamo maggiormente.

Il 14 maggio del 2010 si apriva così Alan Wake, il survival horror sviluppato da Remedy e del cui seguito siamo in (probabilmente eterna) attesa. Il gioco nacque secondo la precisa volontà degli sviluppatori di farne il primo vero thriller videoludico: se l'orrore era stato trattato in lungo e in largo, questo genere doveva ancora muovere i primi passi e i ragazzi di Remedy decisero che avrebbero fatto la differenza, proponendo un'esperienza il cui nucleo ruotava attorno al mistero e alla volontà di disorientare il pubblico, farlo sentire parte integrante della storia quanto il suo tormentato protagonista. Partendo da tre punti chiave - uno scrittore come personaggio principale, il contrasto di luce e tenebre portato non solo in termini narrativi ma anche di meccaniche, e una cittadina americana che fosse familiare senza tuttavia risultare troppo abusata - si creò una delle esperienze più memorabili del suo tempo. Una di quelle, però, la cui eredità a distanza di ben dieci anni è tutt'altro che assicurata: non c'è alcun dubbio che Alan Wake abbia lasciato il segno, eppure non è onorato quanto un Silent Hill 2 o un Dead Space, né è stato mai preso a modello per lo sviluppo di nuovi titoli. Quante volte ci è capitato di pensare a un determinato gioco come possibile erede di uno dei due appena citati? Giusto una settimana fa, l'annuncio di The Medium nel corso dell'Inside Xbox ci ha portato a chiacchierare su quanto potenziale ci fosse perché l'esperienza potesse ricalcare le orme di Silent Hill 2, mentre rimandi di Dead Space possiamo ritrovarli per esempio nell'indie Hellpoint.

Sulle orme di Stephen King

Alan Wake, invece, sembra giocare in un campionato tutto suo. Elogiato e apprezzato ma non abbastanza da diventare un riferimento per i posteri. Questo potrebbe essere dovuto al fatto che si allontana dall'orrore in stile cinematografico dei giochi menzionati, così come prende le distanze dalle spiegazioni psicologiche per giustificare determinati scenari: le esperienze vissute da Alan non sono nella sua testa e nemmeno sono l'emanazione della sua psiche o di eventuali nevrosi. No, Alan Wake parte dal semplice presupposto di uno scrittore in piena crisi creativa che decide di prendersi una vacanza e si ritrova, di punto in bianco, fisicamente coinvolto in una serie di eventi inspiegabili che anzi, per riprendere la citazione di Stephen King in apertura, non hanno bisogno di alcuna spiegazione. E proprio al Re del Brivido gli sviluppatori si sono ispirati nella gestione della narrazione, scavalcando un orrore classico fatto di sangue e violenza per presentarci invece una narrazione costruita attorno alla tensione: abbiamo due forze contrapposte, il protagonista e qualunque cosa sia intenzionata a fargli del male, entrambe presenti nel racconto e destinate presto o tardi a scontrarsi. Ed è proprio quel momento che temiamo di più, perché siamo consapevoli che c'è qualcosa sulle nostre tracce, il gioco non fa nulla per nasconderlo, e più si avvicina il momento del confronto, più aumenta la paura. Non siamo in balia di strane entità o allucinazioni frutto della nostra mente, il pericolo c'è, è concreto e lo affronteremo: non importa quando, succederà e proprio quella consapevolezza si traduce poi in un brivido lungo la schiena, quando esploriamo i dintorni di Bright Falls combattendo le tenebre con una torcia.

Alan Wake, dieci anni dopo è sempre lo Stephen King dei videogiochi

Il gioco del terrore

Sebbene Alan Wake abbia un un'atmosfera alla Twin Peaks o The Twilight Zone, il suo cuore batte al ritmo scandito da King. Le ombre sono là fuori, pronte ad aggredire chiunque incontrino. In mezzo a loro Alan, armato di torcia elettrica e pistola (o fucile, se volete fare le cose in grande). Due forze destinate a scontrarsi e, non appena succederà, ci restituirà un'implacabile tensione: non sarà cruento, non ci saranno quei brividi freddi tipici di un horror quando l'assassino è alle spalle della vittima per farla a pezzi nel modo più sanguinolento possibile. Di fatto, la parola che meglio si adatta a un'esperienza come Alan Wake è terrore: l'orrore sussiste quando siamo trattenuti e qualcosa ci impedisce di proseguire, quando la nostra velocità è un passo ogni dieci secondi e l'orecchio è teso a cogliere anche il più piccolo rumore. Il terrore, al contrario, è l'impellente urgenza di muoverci più veloci possibile e soprattutto farlo contro la nostra volontà. Alan Wake ci obbliga a correre, schivare, colpire e spingerci in avanti sfruttando al meglio la luce e le munizioni, non importa che sia per scappare dalla Presenza Oscura o per caricarla con tutto ciò che abbiamo. Alan non è quel tipo di personaggio che si chiude in una stanza pregando arrivi in fretta il mattino: lui impugna il fucile e vaga per i boschi cercando di farsi strada nel buio che lo circonda.

Alan Wake è un gioco incredibilmente metanarrativo che opera su diversi livelli, ciascuno dei quali meriterebbe un'analisi a sé e tutti fondamentali per dare vita all'esperienza che ha saputo e sa essere: per festeggiare il suo decimo compleanno abbiamo però preferito concentrarci su quell'aspetto che in particolare lo rende diverso dagli altri - forse anche troppo, al punto da non essere ancora stato d'ispirazione per altri giochi. Nel suo voler fare qualcosa di diverso rispetto ai soliti (seppur apprezzabili) survival horror, è come se Remedy abbia creato un genere a sé il cui DNA "kingiano" rende Alan Wake un gioco narrativamente molto più ricercato di quanto si pensi.

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