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Black Mirror e i dilemmi morali dei videogiocatori

Il nuovo episodio di Black Mirror con protagonista Peter Capaldi punta i riflettori sul mondo dei videogiochi e le questioni morali che ci pongono costantemente.

SPECIALE di Mattia Pescitelli   —   25/04/2025
Peter Capaldi, protagonista dell'epidosio Come un giocattolo

L'ultima stagione di Black Mirror ha messo sul piatto molti temi legati al mondo videoludico. Dai servizi in abbonamento sempre più invasivi di Gente comune (il cui discorso si può legare anche a quello di servizi come Game Pass, PlayStation Plus e simili), alla necessità di sopravvivenza dell'identità umana nel mondo digitale in U.S.S. Callister, fino alla creazione di un ambiente virtuale a partire da un'istanza narrativa "giocabile" con Hotel Reverie, i videogiochi e le loro implicazioni hanno guidato i temi di questa settima stagione. C'è un episodio, tuttavia, che porta questo discorso su un altro livello, in modo al contempo diretto e indiretto. Stiamo parlando di Come un giocattolo, con Peter Capaldi nei panni di un giornalista videoludico a dir poco eccentrico.

In questo speciale andremo a esplorare ciò che era emerso anche in fase di recensione (stavolta facendo spoiler), ovvero il protagonismo del lungo e accorato dibattito riguardante i dilemmi morali e l'etica digitale all'interno dei mondi virtuali con i quali ci relazioniamo quotidianamente.

Vicino al reale

Guardando Come un giocattolo è impossibile non notare la vicinanza a una certa visione del settore dei videogiochi. Charlie Brooker, creatore della serie e sceneggiatore di praticamente tutte le puntate, ha lavorato per un periodo, all'inizio della sua carriera lavorativa, proprio all'interno della redazione di PC Zone, presente nella serie senza giri di parole o camuffamenti vari.

L'autore, quindi, ha messo parte del suo vissuto all'interno di questa narrazione iperbolizzata, anche se verosimile. Un giornalista abile con le parole ma privo di qualsivoglia abilità sociale; un visionario del medium che pensa di aver trovato la via d'uscita da un mondo di interazioni che si ripetono più o meno ugualmente nell'esperienza di ogni giocatore; un videogioco che promette di andare "oltre", proponendo la vita stessa come fonte d'intrattenimento che muta e diviene codipendenza.

Se si toglie il velo di fantascienza che ricopre il tutto, è possibile scorgere un mondo simile al nostro, fatto di discorsi che tutt'oggi smuovono gli animi arditi di chi prende parte al dibattito pubblico.

Più di un gioco?

L'episodio vede il protagonista interpretato da Peter Capaldi condividere la sua storia durante un interrogatorio della polizia. Le premesse con le quali lo spettatore si approccia a tale racconto sembrano preannunciarne la natura agghiacciante: un corpo non identificato in una valigia, una stanza piena di circuiti elettronici convergenti in un terminale coperto da un canovaccio da cucina, l'aspetto generale del sospettato, trasandato e apparentemente nevrotico.

L'eccentrico Cameron interpretato da Peter Capaldi
L'eccentrico Cameron interpretato da Peter Capaldi

Il suo resoconto, però, ci pone su un altro piano, capovolgendo il punto di vista e facendo crollare i pregiudizi. Si attiva un meccanismo che dialoga con un aspetto fondamentale della nostra esperienza come fruitori di contenuti: la morale.

Quando si ha a che fare con i videogiochi è inevitabile trovarsi faccia a faccia con il dilemma del bene o del male. I detrattori vedono in questa forma d'arte una via univoca, che porta inevitabilmente alla degenerazione della coscienza umana, mentre chi la segue e la pratica trova conforto nel dire "è finzione, non farei mai nulla del genere nella vita reale". Entrambi gli approcci, visti dai rispettivi fronti opposti, paiono inconcepibili, figli dell'ignoranza e del bigottismo.

Il ritorno di Will Poulter nel ruolo di Colin Ritman
Il ritorno di Will Poulter nel ruolo di Colin Ritman

Per quanto convincersi del fatto che i videogiochi siano una piaga da debellare è qualcosa che lascia il tempo che trova, come chi deprecava e vietava qualsiasi lettura che si allontanasse dalle sacre scritture, anche predicare ciecamente a favore di una narrazione che vive di violenza più o meno camuffata pare improponibile.

La verità, come sempre, sta nel mezzo, nel saper leggere ogni situazione nella giusta ottica, nel saperla contestualizzare al singolo individuo, nell'accettare che un videogioco, nelle mani di chi non possiede determinate capacità di lettura, può effettivamente diventare uno strumento deleterio per la formazione di comportamenti pro-sociali.

Mali minori

Cameron, il protagonista dell'episodio, compie azioni che definire moralmente ambigue suona come un eufemismo, ma la narrazione ce le serve su un piano diametralmente opposto rispetto a quello che scandisce la nostra realtà, un po' come quanto accade nei videogiochi.

Il giovane Cameron
Il giovane Cameron

Quante volte, in un film, abbiamo sentito un odio tale verso un personaggio da spronare il protagonista a "farlo fuori"? La stessa cosa accade anche nei videogiochi. La nostra identificazione con l'alter ego ci porta su un piano che fa dialogare reale e virtuale.

Le possibilità offerte ci fanno assurgere al divino; ci danno un potere che altrove è impossibile trovare, a meno che non si crei il proprio reame all'interno di un contesto ludico-infantile estremamente delimitato (pur essendo presente anche nei videogiochi una barricata digitale che non può essere aggirata, scavalcata o abbattuta). Quante volte da bambini abbiamo sparato per finta al nostro amichetto e abbiamo detto "adesso sei morto, resta lì". Quella morte è ovviamente simulata, una finzione, un gioco. Ma in un "video"-gioco la medesima condizione assume significati differenti.

Dei in catene

Quando ci si immerge in un universo virtuale si ha a che fare con una continua rinascita, una forma di invincibilità che ci sprona a riprovare finché non si riesce a prevalere, a completare il quadro, a conquistare la collina, a debellare l'organizzazione terroristica. Questo superpotere ci convince che possiamo farlo, che è "solo un gioco", che non abbiamo responsabilità nei confronti di quello che accade all'interno del mondo virtuale che abbiamo deciso di abitare per una manciata di ore. Il che, in parte, è vero.

I Thronglets, la prima specie digitale, almeno nell'universo di Black Mirror
I Thronglets, la prima specie digitale, almeno nell'universo di Black Mirror

Non ci sono conseguenze per le nostre azioni. Un videogioco resta un videogioco, fatto di numeri e variabili: finché non la carichiamo noi, quella terra non esiste (o esiste su un server, pronta alla bisogna per essere abitata da milioni di cittadini digitali che per un paio d'ore diventano qualcun altro, un ibrido di identità). Con tale consapevolezza l'amico spacciatore di Cameron si approccia allo schermo pullulante di Thronglets, piccoli esserini che possono essere accuditi, ma anche sterminati. Inizia a schiacciarli perché in ciò vi trova un risultato immediato; si attiva quell'assuefazione data dal potere di essere la mano che comanda un intero regno, che è in grado di scegliere cosa fare. E, dato che può, sceglie la violenza, perché è la via più semplice per relazionarsi con una realtà che ci mette in cima alla catena alimentare.

Come un giocattolo, tuttavia, mette alla prova questa stessa convinzione. E se un videogioco perdesse la sua parte ludica? Se fosse solo la porta su un mondo in continua evoluzione, vivo, che però necessita della nostra persona per poter proliferare e sopravvivere? E se fossimo divinità e schiavi tutto allo stesso tempo? Genitori videoludici, entità superiori per la loro prole eppure loro sudditi pronti a piegarsi a ogni bisogno. Diventiamo imperatori e servi del regno che abbiamo costruito con tanta cura e faremmo di tutto per difenderlo. Siamo la plebe e il generale; la scure e la falce.

Quell'amico che non riesci proprio a scrollarti di dosso
Quell'amico che non riesci proprio a scrollarti di dosso

Come il Cameron davanti ai Thronglets trucidati da un presunto amico che non riesce a scrollarsi di dosso, noi avremmo la stessa reazione se qualcuno ci rovinasse la nostra bella cittadina in Anno 1404 o la nostra famiglia perfetta in The Sims (magari non la parte dell'omicidio nudo e crudo, ma che un fulmine lo colga potrebbe passare per la nostra testa collerica).

Quella di Come un giocattolo è una narrazione che non fa altro che seguire traiettorie che nella vita reale si estinguerebbero sul nascere (creare una nuova specie all'interno di un mondo virtuale, il cui sostentamento è direttamente legato a un essere umano; uccidere qualcuno perché ha calpestato la nostra linea morale all'interno di un mondo virtuale; lasciare che una società digitale senziente, compresa solo sotto l'effetto di acidi, guidi la ragione di un uomo in favore di un futuro che è un salto nel buio). Non solo. Il compito svolto dall'episodio è quello di mettere in risalto un lato del videogioco spesso dimenticato da chi vi dedica il suo tempo e fin troppo spesso ricordato da chi si cala nei panni del paladino dell'umana esperienza prima di tutto: l'etica.

Etica digitale e videogiochi, una relazione complicata

Videogiocare significa mettersi alla prova. Che lo si faccia per passare il tempo, per professione, per amore o per fare un piacere a qualcuno, vi ci immergiamo accogliendo la prospettiva di dover prendere delle decisioni più o meno scontate.

Il visionario creatore di Thronglets alla sua scrivania
Il visionario creatore di Thronglets alla sua scrivania

Può trattarsi di un approccio al gameplay, dell'aspetto esteriore, ma la maggior parte delle volte si tratta di bivi decisionali. Sparerai o no al tuo compagno d'armi in fin di vita? Ruberai o meno i soldi dalla banca di una piccola cittadina post-atomica? Caccerai l'orso che ha ucciso tuo figlio o lo lascerai andare? Rischierai la tua ultima vita provando a saltare sulla più ostica tartaruga del quadro?

Tutte queste sono scelte che vengono date in pasto al giocatore di continuo, in qualsiasi gioco, possa questo essere un platform in due dimensioni o un titolo narrativo, un MMO o un simulatore di vita spaziale. Siamo costantemente posti dinanzi a decisioni da prendere, il più delle volte in frazioni di secondo. E queste scelte aiutano a scolpire la nostra etica sia dentro che fuori i mondi in codice binario.

Siamo le azioni che compiamo?

Nell'episodio in questione veniamo messi faccia a faccia con dei personaggi non certo stabili, né tantomeno dai modelli comportamentali sani. Brooker lo fa per domandare allo spettatore fino a dove ci spingeremmo noi in un contesto del genere; dove porremmo i paletti che distanziano un'azione giusta da una sbagliata, sia all'esterno che all'interno dallo schermo.

Esperienza autonoma o crescita controllata?
Esperienza autonoma o crescita controllata?

Se possediamo il giusto lessico per afferrare i concetti morali che ci vengono proposti e per piegarli a seconda della nostra sensibilità, i videogiochi potrebbero effettivamente diventare una palestra per il nostro approccio alla società fuori dai contesti digitali. Tuttavia, se tale capacità di comprensione è assente, si potrebbe effettivamente virare verso comportamenti antisociali che potrebbero risuonare nel vissuto dell'individuo, affiancati da tutta un'altra cultura della violenza (una narrazione che, volente o nolente, fa parte della stragrande maggioranza dei racconti di finzione, da quelli infantili fino ai più maturi).

Socialmente e storicamente siamo stati abituati alla violenza come legge della natura, come istinto umano, come necessità per la sopravvivenza della specie. Respiriamo il conflitto dalla mattina alla sera, per poi sognarlo la notte fino a che il ciclo non si ripete giorno dopo giorno. Siamo bombardati da questa narrazione, anche e soprattutto verbalmente, come questa frase esemplifica perfettamente. E ciò è anche quello che Brooker ha voluto veicolare attraverso l'episodio in questione, a partire dalle parole simili alle nostre che ha messo in bocca allo sviluppatore Ritman, in un momento di lucidità tra un crollo psichico e l'altro.

Se questa vita digitale equivalesse a quella reale cambierebbe il nostro approccio verso di essa?
Se questa vita digitale equivalesse a quella reale cambierebbe il nostro approccio verso di essa?

La nostra etica non dovrebbe disabilitarsi solo perché ci troviamo dinanzi a un mondo di finzione. Anzi, a maggior ragione dovremmo dialogare con essa, cercare di capire cosa stiamo facendo e perché, cos'è quello che vogliamo ottenere da questa partita, quali sono le implicazioni morali alla sua base, comprendere cosa ci spinge ad agire in un determinato modo a un dato momento.

Poi possiamo scegliere liberamente di mettere sotto tutti i pedoni che incontriamo in Grand Theft Auto o di far annegare in una piscina senza scaletta un'intera città di Sims, ma lo facciamo conoscendo il peso di tali azioni, scorgendo la violenza gratuita al loro interno come mero passatempo capace di creare dipendenza, il che è sufficiente a renderci più consapevoli di noi stessi e di chi ci circonda. E in ciò i videogiochi sono da sempre stati dei grandi maestri, nonostante molti non si siano neanche accorti dell'effetto che hanno avuto nella formazione del pensiero critico di un gran numero di persone.

I principali protagonisti della nuova stagione di Black Mirror
I principali protagonisti della nuova stagione di Black Mirror

Forse Brooker parla di ciò in maniera un po' affettata, portando all'estremo quei tropi che perseguitano questa forma d'arte sin dal suo concepimento, ma anche il solo fatto che qualcuno provi a mettere sul piatto tali dinamiche e discorsi in una maniera complessa, che pare divisa tra bianco e nero pur navigando costantemente in un mare di grigio, è abbastanza per instillare quel tarlo di consapevolezza all'interno della mente dei due estremi: e se, per una volta, provassi a comprendere il punto di vista di chi mi sta davanti? Non ci vuole poi così tanto. Basta fare finta si tratti di un gioco.