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I videogiochi al cinema, una questione di adattamento

Proviamo a capire perché è così complesso adattare le narrazioni dei videogiochi al linguaggio cinematografico e quali potrebbero essere le possibili soluzioni

SPECIALE di Mattia Pescitelli   —   04/03/2022

Come può un videogioco, con la sua interattività e durata, essere adattato al mezzo cinematografico in modo convincente? È un quesito che si sono posti in molti negli ultimi anni, ma non è nuovo all'interno del panorama mediale. Per certi versi, è il processo che colpisce anche la trasposizione di opere letterarie in immagini in movimento e viceversa, ad esempio. Non è facile riuscire a portare una narrazione pensata per un medium specifico su di un altro con la stessa efficacia e coerenza della sua fonte d'origine, perché, ovviamente, si sta "traducendo" un testo per renderlo efficace su un differente modello comunicativo, con le sue regole, la sua struttura, il suo linguaggio.

Basta guardarsi attorno per scovare immediatamente produzioni che hanno intenzione di riproporre storie, emozioni e (il più delle volte) successo in altra veste, senza, però, riuscire nell'intento e sprofondare in una zona paludosa composta da fan accaniti, detrattori senza tempo e ignari spettatori, tutti uniti sotto l'egida dello smantellamento della fallimentare operazione transmediale. Eppure, si continua a investire su questi progetti pericolosamente ostici e complessi da realizzare (in modo adeguato, ovviamente). Che sia una questione di ritorno economico è indubbio, ma vogliamo addentrarci più a fondo in questo antro oscuro.

Senza la pretesa di trovare una soluzione definitiva al problema, il nostro intento è quello di provare a capire, attraverso l'analisi di alcune (perlopiù) recenti produzioni audiovisive, cosa pregiudica la riuscita o il fallimento dell'adattamento cinematografico di un videogioco.

Il cinema e l’adattamento

Videogiochi al cinema: il desiderio di raccontare storie già rodate non ha mai avuto limiti, neanche se si trattava di aggirare le leggi sul diritto d'autore, come nel caso del Nosferatu di Murnau
Videogiochi al cinema: il desiderio di raccontare storie già rodate non ha mai avuto limiti, neanche se si trattava di aggirare le leggi sul diritto d'autore, come nel caso del Nosferatu di Murnau

La voglia di adattare racconti noti e apprezzati segue la storia cinematografica sin dalle sue origini, da quando si vedeva al medium come una "fabbrica di attrazioni". Sono proprio queste "vedute" fuori dal coro ad aver contribuito al sempre maggiore protagonismo del comparto narrativo all'interno delle opere cinematografiche commerciali. I romanzi hanno da subito attirato l'attenzione dei produttori, dato che rappresentavano la controparte dell'intrattenimento di massa agli inizi del XX secolo.

Anche i fumetti (prima dell'esplosione mediatica degli anni Duemila) divennero velocemente un fiorente ramo dell'adattamento cinematografico, prima di trovare, con l'avvento della televisione, una nuova alleata. Ma esistono anche casi di scambi reciproci tra lo stesso medium televisivo e quello cinematografico, fino ad arrivare all'avvento dei videogiochi. In tutti questi casi, il cinema deve fare i conti con dei codici comunicativi altamente differenti dal suo (si veda la famosa distinzione di Marshall McLuhan tra media caldi e media freddi).

Tra tutti quelli elencati, il cinema è probabilmente il medium che comunica il suo messaggio nel minor tempo. Per quanto anche diverse altre esperienze (videoludiche, letterarie, televisive) siano in grado, in determinati casi, di divulgare il loro intento all'interno di un lasso di tempo molto ristretto (o, al contrario, al cinema di comunicare il suo con un divario che può ricoprire anche svariati anni), i film, specialmente quelli altamente commercializzati, hanno una durata media che si aggira intorno alle due ore. Di conseguenza, spesso, ci si ritrova a condensare narrazioni, che altrove richiedono anche una quarantina di ore per essere sviluppate a dovere, in una finestra temporale immensamente più contenuta.

Proprio qui si annida il dilemma dell'adattamento: scegliere se condensare tutto in una manciata di ore, oppure se suddividere la narrazione in più film. Se nel primo caso il rischio è quello di risultare eccessivamente sbrigativo e superficiale, nel secondo si potrebbe incappare nella poca efficacia dell'operazione di adattamento, pregiudicando l'uscita dei capitoli successivi che dovrebbero chiudere il ciclo narrativo iniziato e bruscamente interrotto.

L'adattamento di opere letterarie, per quanto non semplice, ha dimostrato negli anni un maggior margine di successo, probabilmente per il fatto che la natura scritta della sua comunicazione permette uno spazio di manovra creativo più congeniale al mezzo cinematografico rispetto ad altri media in cui la componente visiva (e quindi iconica) prevale, rendendo più difficile allo spettatore non associare il prodotto filmico al ricordo figurato che ha della sua fonte d'origine. Con il fumetto, la relazione è già più complessa, ma il vero scoglio interpretativo che il cinema ha incontrato lungo il suo tragitto è stato senz'altro il videogioco.

Videogiochi al cinema

Videogiochi al cinema: la saga di Resident Evil, nel bene e nel male, ha dato una scossa al mercato
Videogiochi al cinema: la saga di Resident Evil, nel bene e nel male, ha dato una scossa al mercato

Il crescente successo di questa nuova fonte d'intrattenimento ha spinto il cinema a guardare con fiducia (finanziaria, perlopiù) al nascente medium, accogliendolo fin da subito sotto la sua ala in uno scambio reciproco che ondeggia tra l'intermediale e il transmediale. Film che diventano videogiochi e videogiochi che diventano film, ma anche film che imparano dalla struttura videoludica e videogiochi che saccheggiano la struttura filmica. Le possibilità sono molteplici, come le fonti di guadagno. Eppure, mentre i videogiochi sembrano essersi ormai assestati sulla spinta all'ibridazione dei linguaggi, proponendo produzioni che riescono a coadiuvare tecniche cinematografiche e meccaniche videoludiche, il cinema sembra essersi incaponito sulla necessità di portare i videogiochi sul grande schermo. Il più delle volte, il risultato è deludente. Ma cosa porta a questo esito ricorrente?

Si potrebbe dire che chi realizza il film non ha la benché minima idea di cosa tratti il videogioco d'origine o che non è un "vero giocatore", ma equivarrebbe a generalizzare in modo fin troppo superficiale. I temi da tenere in considerazione, a nostro avviso, sono altri. Innanzitutto, bisogna identificare il pubblico di riferimento. Quando si punta ad adattare un'opera videoludica al cinema, solitamente si è spinti a scegliere produzioni di successo, che hanno alle loro spalle già una discreta schiera di fan (esattamente come accade sul versante letterario), così da creare del dibattito attorno al proprio lavoro mesi (se non anni) prima della sua uscita.

Videogiochi al cinema: il Super Mario interpretato da Bob Hoskins è figlio dei primi 'esperimenti' di adattamento dei videogiochi al cinema
Videogiochi al cinema: il Super Mario interpretato da Bob Hoskins è figlio dei primi "esperimenti" di adattamento dei videogiochi al cinema

Al momento, quindi, il videogioco al cinema si incasella nel settore del "blockbuster ad alto budget", indirizzato a una fetta di pubblico la più ampia possibile, così da massimizzare il guadagno. Ciò comporta un lavoro di semplificazione delle vicende narrate, atto a una più facile assimilazione sia da parte di chi conosce l'opera di riferimento, sia da chi non ne ha mai sentito parlare. Questo è, il più delle volte, un processo autodistruttivo, che non riesce a catturare i neofiti e che non incontra le aspettative dei fan. Eppure esistono progetti che, pur non essendo assolutamente perfetti, riescono in un'operazione che il più delle volte viene messa in secondo piano, ma che, a ben pensare, sembra essere l'unica via percorribile per una "sana relazione" tra adattamento cinematografico e fonte videoludica: trovare l'essenza dell'opera.

Seguendo l'eco aristotelico, l'essenza di un videogioco può essere identificata con la peculiare "struttura ossea" che lo caratterizza, trasformandolo da semplice costrutto visivo a presenza iconica riconosciuta e tramandata dalla memoria collettiva. Rappresenta, in buona sostanza, l'agglomerato di emozioni e sensazioni scaturite dal ricordo dell'esperienza vissuta all'interno di un determinato universo di gioco.

Videogiochi al cinema: Raúl Juliá nei panni di M. Bison nel film di Street Fighter
Videogiochi al cinema: Raúl Juliá nei panni di M. Bison nel film di Street Fighter

Il pubblico affezionato a un determinato mondo (o, meglio, all'idea che ha di quel mondo) si ostina a ricercare la fedelissima riproduzione di ciò che conosce, utopia ancestrale della rappresentazione visiva di eventi fondanti per le società umane. A tratti è sconcertante l'ancora centrale ricerca del camaleontismo quando si fa riferimento a personaggi del passato. La mente umana sembra non riuscire ad accettare la riproduzione visiva di qualcosa che non incontra la sua memoria; preferisce assistere alla riesumazione in silicone dei morti piuttosto che trovarsi faccia a faccia con una visione non conforme ai suoi ricordi, ma simbiotica a essi nella sua essenza più intima.

Esattamente come ogni giorno ci si lamenta del fatto che "quell'attore non assomiglia alla figura storica che deve interpretare", ci si ritrova a storcere il naso quando l'adattamento cinematografico di un videogioco si allontana anche solo di qualche passo dalla strada battuta. Ma, forse, non dovremmo avere così tanto timore di vedere il "nostro mondo prediletto" mutato dalla struttura cinematografica. Per andare più nel dettaglio, è bene iniziare a fare alcuni esempi, tutti presi dalla storia recente dei videogiochi al cinema (ma non solo).

Sfruttare la propria immagine: Uncharted

Videogiochi al cinema: Tom Holland nei panni di un novello Nathan Drake
Videogiochi al cinema: Tom Holland nei panni di un novello Nathan Drake

Prima di procedere, teniamo a rassicurarvi che non faremo spoiler riguardanti il nuovo film di Uncharted. Ci limiteremo a parlare in generale dell'operazione di adattamento e di quanto è stato condiviso attraverso i trailer prima dell'uscita del film, anche perché non c'è bisogno di scendere nel particolare per individuare le caratteristiche che stiamo indagando in questa sede.

Uncharted, film atteso da almeno una decina di anni e figlio di una gestazione piena di ripensamenti, posticipazioni e imprevisti, rappresenta un caso particolare nella recente storia di adattamenti di videogiochi. Basta un colpo d'occhio fugace per capire che la traiettoria seguita da Sony per la creazione del primo progetto firmato PlayStation Productions è quella di puntare sul coinvolgimento della memoria del giocatore-spettatore. Dalla sequenza al cardiopalma sull'aereo cargo, all'asta multimiliardaria, tutto punta nella direzione di una identificazione immediata di determinate sequenze iconiche, che spingano l'osservatore "esperto" al riconoscimento di quanto esperito altrove.

Videogiochi al cinema: Sony ha puntato sulla memoria del giocatore-spettatore
Videogiochi al cinema: Sony ha puntato sulla memoria del giocatore-spettatore

Questa tendenza autoreferenziale e fine al solo giovamento da parte dell'appassionato inizia, però, a stonare nel momento in cui la produzione videoludica incrocia la via di quella cinematografica di matrice prettamente hollywoodiana. Di conseguenza, l'eccesso (una costante comunque presente all'interno della saga PlayStation) comincia a scalare nuove vette d'improbabilità, fino a raggiungere la ridondante spettacolarizzazione data da due galeoni fatiscenti che, mentre aviotrasportati, diventano campo di una battaglia che lancia il definitivo guanto di sfida alle leggi della fisica. In quel caso, si aprono due strade divergenti: la voglia di accontentare i fan di lunga data e la ricerca di una fascinazione visiva in grado di convincere principalmente chi si approccia per la prima volta al mondo di Uncharted. La posizione in cui si va a piazzare questa operazione è decisamente pericolosa, in quanto basta veramente poco per "offendere" uno dei due avventori che accerchiano la sua barricata, se non entrambi. Ma cerchiamo di capire anche quali siano stati i criteri che hanno portato a determinate scelte che molti additerebbero come "radicali".

Videogiochi al cinema: la scelta del cast rivela molto riguardo le intenzioni di questo adattamento cinematografico
Videogiochi al cinema: la scelta del cast rivela molto riguardo le intenzioni di questo adattamento cinematografico

Partiamo dal cast. La scelta di attori del calibro di Tom Holland e Mark Wahlberg è evidentemente pilotata dalla voglia di utilizzare dei volti altamente riconoscibili per lanciare una nuova (possibile) saga cinematografica. Tuttavia, non va dimenticato un altro elemento, che sottolinea una delle evidenti differenze tra cinema e videogiochi, ovvero l'ampio lasso di tempo che può intercorrere tra un film e l'altro. Mentre nel mondo videoludico dieci anni sulle spalle di un interprete possono essere cancellati in un battito di ciglia, al cinema la questione è diverse, sperimentale e molto dispendiosa. Dato che i risultati in tale ambito hanno iniziato a mostrare i loro frutti solo negli ultimi anni, è evidente che una casa di produzione cinematografica, dinanzi a una scelta che potrebbe pregiudicare la riuscita sul lungo termine di un progetto potenzialmente molto fruttuoso, preferisca trovare attori relativamente giovani, capaci d'invecchiare con un determinato personaggio il più a lungo possibile.

Poi può succedere di tutto, dalla prematura dipartita di un interprete al suo rifiuto di apparire nuovamente in quella veste (contratto permettendo). Però la propensione è sempre quella di proteggere il proprio investimento con una strategia che guardi al lungo termine piuttosto di andare a districarsi nei complessi meandri della sperimentazione, lasciata a produzioni che possono permettersi un più ampio margine di errore.

Videogiochi al cinema: spesso, produzioni come Uncharted guardano anche al risultato sul lungo termine, adattandosi di conseguenza
Videogiochi al cinema: spesso, produzioni come Uncharted guardano anche al risultato sul lungo termine, adattandosi di conseguenza

L'altro lato della medaglia è rappresentato dal miscuglio delle esperienze che i videogiocatori hanno consumato in più di un decennio di attività videoludica. In questo adattamento cinematografico troviamo un po' tutti gli Uncharted, ma è senz'altro l'ultimo ad aver guidato la realizzazione della versione finale che ha trovato posto sul grande schermo. "Perché partire dal capitolo conclusivo di una saga videoludica per iniziarne una cinematografica?", si potrebbe chiedere qualcuno. La risposta che balza subito alla mente è che la maggior parte del pubblico ha un ricordo più vivido di quest'ultimo, in parte perché il più recente, in parte perché il più cinematografico, ma anche perché in molti hanno conosciuto la saga proprio grazie alla quarta avventura nei panni di Nate. Dopotutto, è bene ricordarselo, il primo capitolo per PlayStation 3 è datato 2007, un periodo in cui è vero che i videogiochi iniziavano già a rivestire un ruolo importante all'interno del panorama culturale di massa, ma senz'altro non ai livelli raggiunti una decina di anni dopo.

Mettendo insieme gli spunti fuoriusciti da questa analisi (la ricerca del fan e allo stesso tempo del pubblico di massa; la scelta attoriale; la decisione di affidarsi al ricordo più vivido dello spettatore) possiamo notare una retta che sembra attraversarli tutti, ovvero lo sfruttamento forsennato di una proprietà intellettuale potenzialmente fruttuosa in un contesto diverso rispetto a quello di origine. Un'operazione che non è assolutamente nuova e che, se orchestrata a dovere, può portare all'obiettivo prestabilito: massimizzare il guadagno usufruendo del protagonismo che un marchio come quello di PlayStation è riuscito ad acquisire nell'ultimo ventennio.

Distaccarsi dalla fonte: Assassin’s Creed

Videogiochi al cinema: il film di Assassin's Creed con Michael Fassbender non è il solito adattamento
Videogiochi al cinema: il film di Assassin's Creed con Michael Fassbender non è il solito adattamento

All'estremo opposto rispetto al più recente Uncharted troviamo il film di Assassin's Creed, datato 2016. Pur non abbandonando la necessità di andare a richiamare sia un pubblico di appassionati che di completi ignari, possiamo notare una linea di pensiero singolarmente differente rispetto alla produzione PlayStation. Se nel precedente caso il richiamo alla spettacolarizzazione estrema è evidente sin dai primi istanti, con Assassin's Creed assistiamo a un processo inverso, più "maturo" (nei toni, ovviamente). Basta dare un'occhiata al cast tecnico per accorgersi della ricercatezza stilistica che si è cercato di attribuire al film.

Il regista, infatti, è Justin Kurzel, che nel periodo della realizzazione del progetto in collaborazione con Ubisoft era appena uscito dalla produzione di una pellicola particolarmente impegnativa come può essere l'ennesimo adattamento del Macbeth di Shakespeare. Su consiglio di Michael Fassbender, uno dei più convinti fautori della trasposizione cinematografica del videogioco (con il quale il regista aveva appena collaborato per il suddetto film), Kurzel si imbarca in questa impresa, tutt'altro che facile, portandosi al seguito gran parte del cast tecnico con il quale aveva da poco ultimato il suo ultimo film, tra cui Adam Arkapaw (uno dei più apprezzati direttori della fotografia emergenti), il fratello Jed Kurzel (compositore di tutte le colonne sonore destinate ai film di Justin), lo sceneggiatore Michael Lesslie (che si è trovato a condividere la scrivania con il binomio Cooper/Collage, firme di sceneggiature come quelle di Allegiant e Exodus - Dei e Re) e Marion Cotillard, diretta sempre dal regista al fianco di Fassbender nei panni di Lady Macbeth. Insomma, troviamo un gruppo di collaboratori decisamente affiatato, appena uscito da una delle produzioni cinematografiche più particolari degli ultimi anni, alle prese con un titolo molto importante per un settore ormai non più di nicchia. Ed è proprio questo scontro tra una forza autoriale indomita e un marchio con alle spalle giganti d'industrie differenti (Ubisoft da un lato e 20th Century Fox dall'altro) il probabile artefice del cortocircuito che ha destabilizzato la maggior parte degli spettatori.

Videogiochi al cinema: lasciare la via segnata da una narrazione rodata è un balzo della fede che in pochi sono disposti a compiere
Videogiochi al cinema: lasciare la via segnata da una narrazione rodata è un balzo della fede che in pochi sono disposti a compiere

In modo più estremo rispetto a Uncharted, il film di Assassin's Creed ha tagliato praticamente ogni ponte con la controparte videoludica, portando su schermo una storia "altra", legata per tematiche ai videogiochi, ma senza andare ad adattare direttamente le vicende narrate al loro interno. In questo caso, la tendenza sembrava quella di voler realizzare un progetto parallelo, realmente transmediale, capace di comunicare con le future istanze videoludiche (cosa che, in parte, accade, come dimostrano alcuni indizi all'interno di Assassin's Creed Origins). Per fare ciò, Kurzel e il suo team hanno cercato di privare in ogni modo il fan del suo momento di riconoscimento, ad esempio tagliando bruscamente (e in modo anche abbastanza funzionale) una sequenza fondamentale come quella del balzo della fede, azione che in un videogioco può indicativamente avere senso, ma che, tradotta sul grande schermo, all'interno di una narrazione perlopiù "con i piedi per terra" e con una direzione così seriosa, è inevitabile che andrà a stridere.

Anche l'Animus, fulcro dell'esperienza e dell'iconografia di Assassin's Creed, qui viene rivoluzionato per creare delle sequenze più cinetiche (andando anche a problematizzare l'efficacia dell'effetto Osmosi, la dinamica per cui chi rivive i ricordi dell'antenato è in grado, poi, di replicare i suoi movimenti nel "mondo reale"). Ultimo affondo nel cuore dell'appassionato è la mancanza di qualsivoglia rimando musicale al videogioco. La scelta dei fratelli Kurzel è drastica, ma fondamentale per la costruzione di un unicum stilistico che vada a rimodellare all'interno di un differente mezzo di comunicazione un universo preesistente altrove.

Videogiochi al cinema: la direzione di Kurzel e l'impiego di un team tecnico fidato ha portato a uno scontro stilistico con la realtà videoludica
Videogiochi al cinema: la direzione di Kurzel e l'impiego di un team tecnico fidato ha portato a uno scontro stilistico con la realtà videoludica

Le decisioni che hanno portato alla realizzazione del progetto Assassin's Creed, seppur non sempre convincenti, si avvicinano molto alla definizione di "essenza" che abbiamo dato all'inizio di questa disamina. L'adattamento non ha la necessità di essere la copia carbone di un progetto d'origine per funzionare, anzi, deve esaminarlo a fondo e trovarvi poche coordinate utili a riproporre quel modello e le sensazioni a esso legate all'interno di un nuovo medium, senza cercare forsennatamente il camaleontismo o l'appagamento di fan sul piede di guerra. Perché partire con il presupposto di realizzare la medesima opera è dichiarare già la propria sconfitta, sia come voce in grado di far valere il suo punto di vista riguardo un determinato tema, sia come prodotto capace di comunicare efficacemente il proprio messaggio una volta estrapolato dal suo mondo d'origine.

Superare il limite: Monster Hunter

Videogiochi al cinema: Monster Hunter e il dilemma della contaminazione occidentale
Videogiochi al cinema: Monster Hunter e il dilemma della contaminazione occidentale

Come c'è chi è accecato dalla ricerca dell'approvazione dei fan, c'è anche chi è sviato dall'eccessiva voglia di proporre la sua visione di un determinato universo, perdendo l'essenza che lo fonda. Questo è il caso di Monster Hunter, più recente film di Paul W. S. Anderson, "padre" della saga cinematografica di Resident Evil con protagonista Milla Jovovich. La linea che separa l'essenza dall'eccesso è molto sottile. Basta veramente poco per oltrepassarla e ritrovarsi su un terreno dal quale è difficile fuoriuscire. In questo caso, Anderson ha voluto adattare il videogioco al mezzo cinema proponendo un'interpretazione che fa incontrare il contemporaneo con il fantasy attraverso lo scontro tra soldati delle Nazioni Unite e creature immense, il tutto all'interno di un universo parallelo scarsamente abitato da esseri umanoidi che rimandano alla tradizione iconografica orientale. Per quanto sia legittima la scelta di questa convergenza tra due mondi (che potrebbero essere sostituiti da "cinema" e "videogiochi"), l'essenza della serie Monster Hunter pare sbiadire dinanzi al mezzo cinematografico, la cui natura spettacolarizzante porta la lotta impari tra uomo e natura al livello bellico contemporaneo (almeno inizialmente), così da poter giustificare un alto tasso di effetti pirotecnici, oltre a un "ridimensionamento" della sproporzione irrealistica e del carattere caricaturale caro alla cultura orientale (non facilmente digeribile dalla stragrande maggioranza del pubblico di massa occidentale).

Videogiochi e cinema: l'attualità incontra il fantasy in Monster Hunter
Videogiochi e cinema: l'attualità incontra il fantasy in Monster Hunter

In tal modo, ci ritroviamo quasi a compiere un giro completo, tornando alla questione dell'identificazione dell'universo da parte del fan non tanto per l'atmosfera generatasi grazie al delicato amalgama di ricercatezza stilistica, adattamento mediale ed essenza di riferimento, quanto per alcune coordinate iconografiche facilmente individuabili, fini a loro stesse e legate al progetto unicamente dal nome che le sovrasta.

L’attacco del gigante: Netflix e i videogiochi

Videogiochi al cinema: la serialità entra in gioco con le più recenti produzioni Netflix
Videogiochi al cinema: la serialità entra in gioco con le più recenti produzioni Netflix

Nonostante il grande schermo rimanga un importante polo attrazionale per l'ambiente videoludico, non è da sottovalutare anche l'impatto che il mondo dello streaming ha avuto sul settore. Una delle principali realtà che sembra aver puntato tutto sull'adattamento di saghe videoludiche più o meno acclamate è senz'altro Netflix. Senza andare a scomodare produzioni che devono ancora vedere la luce del sole, rimaniamo su tre operazioni seriali decisamente recenti: The Witcher, Arcane e Cuphead.

Il caso dello strigo è emblematico perché rappresenta l'esempio perfetto del "cambio di rotta". La serie di The Witcher, infatti, non segue le vicende narrate nei videogiochi firmati da CD Projekt Red, ma quelle dei romanzi scritti da Andrzej Sapkowski. Questo fatto veniva evidenziato dai trailer di presentazione della prima stagione e le stesse puntate mostravano un completo distacco da qualsiasi riferimento al gioco (richiamato forse solo in alcuni tratti della colonna sonora, che, comunque, ricercava con ostinatezza una sua indipendenza stilistica).

Videogiochi al cinema: la serie di The Witcher, tra la prima e la seconda stagione, sembra essere passata da un legame univoco con l'origine letteraria a uno dialogo anche con quella videoludica
Videogiochi al cinema: la serie di The Witcher, tra la prima e la seconda stagione, sembra essere passata da un legame univoco con l'origine letteraria a uno dialogo anche con quella videoludica

Due anni dopo, con l'arrivo della seconda stagione, qualcosa sembra essere cambiato: non troviamo più quella grinta registica che aveva contraddistinto la precedente produzione; visivamente risulta tutto più "leccato" e brillante, ritrovando lo "standard Netflix" che contraddistingue le serie realizzate dalla società americana da un anno a questa parte; e, ultimo ma non meno importante, iniziano a spiccare all'occhio molti "easter egg" che vanno a richiamare le avventure digitali di Geralt. A un primo impatto potrebbe anche sembrare irrilevante, ma, se andiamo a esaminare la via che Netflix ha intrapreso dal successo della prima stagione a oggi, possiamo notare come la spinta verso l'adattamento di opere che potremmo definire "geek" prevalga rispetto ad altre strategie produttive (processo già iniziato ai tempi di Stranger Things). Questa "rivelazione" ha sicuramente portato a riconoscere che, per buona pace di Sapkowski, il successo del franchise provenga principalmente dal lavoro svolto in ambito videoludico, specialmente con l'ultimo capitolo della trilogia.

Di conseguenza, troviamo un adattamento completamente avulso dal contesto videoludico ritrovare al suo interno elementi che richiamano proprio quest'ultimo. Un processo del genere ha l'aria di una giustificazione postuma, come se si dovessero scusare del mancato riconoscimento dell'importanza mediatica attribuita al videogioco e negata al momento del concepimento del progetto. Magari non è così, anche perché non c'è proprio nulla di cui scusarsi, ma inserimenti estemporanei come questi fanno sollevare più di un quesito.

Videogiochi al cinema: l'animazione sembra il vero campo sperimentale per l'adattamento di videogiochi al cinema e in televisione
Videogiochi al cinema: l'animazione sembra il vero campo sperimentale per l'adattamento di videogiochi al cinema e in televisione

Sotto tutt'altra luce, invece, troviamo i progetti d'animazione Netflix. Tra questi, Arcane e Cuphead rappresentano due ottimi esempi di comprensione dell'essenza che struttura la fonte d'appartenenza. Da un lato abbiamo una serie che parte da un universo per creare una sua narrazione originale, interpretando temi, relazioni e tensioni, il tutto attraverso il velo della sperimentazione visiva (perlopiù preclusa nell'ambito delle produzioni destinate al grande schermo); dall'altro, le componenti del videogioco vengono scomposte fino a ritrovare il carattere prettamente audiovisivo che le fonda, il quale già condivide un legame con il passato delle immagini in movimento. Pur seguendo due vie opposte (costruire partendo da delle direttive poco più che abbozzate e, al contrario, decostruire fino a raggiungere il fulcro dell'esperienza visuale), entrambe le serie fanno dell'essenza della loro fonte d'origine il punto cruciale dal quale dipanare la loro narrazione seriale, nonostante una rincorra (adottando un fortunato concetto di Paolo Jedlowski) una "nostalgia riflessiva" e l'altra una "nostalgia restauratrice".

Quale futuro?

Videogiochi al cinema: progetti come la serie di Halo saranno capaci di cambiare le carte in tavola?
Videogiochi al cinema: progetti come la serie di Halo saranno capaci di cambiare le carte in tavola?

La questione relativa agli adattamenti rimane spinosa, probabilmente non districabile in alcun modo se l'intento resta quello di massimizzare i guadagni e catturare un vastissimo pubblico di riferimento. Opere come Arcane, la serie di Cuphead, ma anche lo stesso Assassin's Creed, in fondo, hanno dimostrato che per trasporre in modo quantomeno soddisfacente una produzione videoludica in un contesto cinematografico bisogna, nel bene e nel male, non lasciarsi condizionare dalla voglia di accontentare i fan a tutti i costi, né tantomeno di dimenticarsi dell'origine di tale fenomeno mediatico. Pur non prendendo le seguenti parole come una ricetta infallibile, sembra necessario un preciso processo amalgama tra comprensione dell'essenza che muove l'universo di riferimento, ricercatezza stilistica capace di dargli forma a livello cinematografico e, magari, una componente sperimentale in grado di segnare una via alternativa, percorribile poi anche da altre produzioni. Sembra un po' l'utopia cinematografica che muove la mente di autori e cineasti sin dalle origini del medium. Eppure il passato ci ha mostrato come da iniziali passi falsi, spinti solo da intenti economici, si sia cominciata a spianare la strada per un numero sempre più ampio e vario di progetti in grado di utilizzare a dovere nuove tecniche, nuove intuizioni, nuovi modi di raccontare il mondo e le sue infinite sfaccettature.

Voi cosa ne pensate? Siete un minimo ottimisti nei confronti della presenza dei videogiochi al cinema oppure, ormai, avete perso tutte e speranze? Fatecelo sapere nei commenti.