Di videogiochi in prima persona ne abbiamo visti molti negli anni. Che si trattasse di sparatutto o di titoli dalle forti componenti rompicapo, la prima persona ha sempre affascinato gli utenti grazie alla sua peculiare caratteristica di far coincidere il punto di vista del giocatore con quello del suo alter ego. Col passare degli anni, tali narrazioni (in particolar modo quelle dei videogiochi d'azione e avventura) hanno raggiunto livelli sempre più coinvolgenti, spesso grazie all'implementazione di scene d'intermezzo che si legano in modo continuativo con le sequenze di gioco. Tuttavia, sembra che ultimamente si stia assistendo a un cambiamento di rotta, che potrebbe portare all'accantonamento di questa tecnica di ripresa in favore di un più classico approccio cinematografico o, addirittura, di una totale assenza narrativa.
Rintracciando anche i legami con il mondo del cinema, cerchiamo di comprendere perché la soggettiva come elemento narrativo e registico non dovrebbe essere messa da parte dal mondo dei videogiochi, ma dovrebbe essere, al contrario, valorizzata da quest'ultimo.
Origini cinematografiche
La soggettiva è un tipo di inquadratura che viene utilizzata praticamente dagli albori del cinema. Per sua natura, quest'ultimo condivide un forte legame con il mondo della fotografia, dove lo sguardo del fotografo coincide con quello dell'osservatore, che diventa partecipe a sua volta di quanto si trova a contemplare, anche se solo attraverso la forma stampata. Nel caso cinematografico, la situazione cambia perché lo spettatore diventa un'entità esterna ai fatti narrati, che guarda le vicende attraverso un punto di vista privilegiato, in grado di mutare nel giro di pochi secondi e di addentrarsi nei piani più improbabili del reale. Lo sguardo della macchina (e, di conseguenza, dello spettatore) può diventare tanto un binocolo quanto un microscopio in grado di cogliere i dettagli più specifici, che magari sfuggono a chi "vive" quelle vicende sullo schermo.
Questa prospettiva di superiorità rispetto ai personaggi della narrazione cambia quando lo sguardo di entrambe le parti coincide. Nel momento in cui ciò avviene, ci troviamo dinanzi a una soggettiva del personaggio in questione.
Già nel cinema degli albori, quello cosiddetto "primitivo", si trovavano esempi di questo genere di inquadratura. Uno abbastanza esplicativo è il cortometraggio Grandma's Reading Glass di George Albert Smith, risalente al 1900. Il regista, membro della celeberrima Scuola di Brighton, è famoso per aver introdotto un elemento come il montaggio nell'allora acerbo mondo del cinema. È proprio grazie a quest'ultimo che è stato in grado di realizzare la soggettiva.
Sì, perché la soggettiva cinematografica è diversa rispetto la prima persona videoludica che abbiamo imparato a conoscere negli anni. Per rendere possibile una corretta lettura (specialmente durante i primi anni del cinema) di un'inquadratura soggettiva, bisogna giustapporla a una oggettiva che mostri il personaggio nell'atto di osservare. Nel caso del film di Smith, vediamo prima il bambino che si accinge a "inquadrare" vari oggetti con la lente di ingrandimento e, solo poi, vediamo gli oggetti ingranditi.
Questa grammatica filmica è rimasta sostanzialmente invariata negli anni, specialmente durante il periodo classico del cinema. In Intrigo Internazionale di Alfred Hitchcock troviamo la stessa metodologia, con piani oggettivi di Cary Grant che guarda in direzione della desolata strada desertica, sulla quale attende di incontrare qualcuno, e soggettive di ciò che sta guardando, dai campi di grano ai pochi veicoli che passano.
Tuttavia, la svolta durante gli anni della controcultura ha portato a rinnovate soluzioni. Un pubblico maggiormente "scolarizzato" (in termini di linguaggio cinematografico) ha permesso a nuovi registi emergenti di utilizzare la soggettiva in altri modi (senz'altro già sperimentati dai loro predecessori, ma in minor misura), spesso omettendo l'oggettiva, utile a identificare lo sguardo della macchina da presa con quello di un personaggio interno al racconto. Ne sono un esempio tutti quei film nei quali vediamo attraverso gli occhi di qualcuno o qualcosa, intento a spiare determinati personaggi attraverso un foro nel muro o nascosto nel fogliame.
Oppure anche in quei casi in cui assistiamo in "prima persona" a un omicidio. Qui, ovviamente, l'assassino deve rimanere ignoto fino a che la narrazione non è abbastanza matura da permettere un disvelamento, altrimenti scemerebbe l'interesse per i fatti narrati (a meno che, a livello di scrittura, non venga sfruttato in modo adeguato proprio il fatto che "lo spettatore sa"). In questi casi, l'identificazione della soggettiva da parte dello spettatore coincide con lo sguardo in macchina di personaggi che si rivolgono, magari anche verbalmente, a un elemento interno alla diegesi, non direttamente allo spettatore (altrimenti assisteremmo a uno sfondamento della quarta parete più che a una vera e propria soggettiva).
C'è da dire che ognuna di queste ipotesi rappresenta solo un'infinitesimale porzione della narrazione visiva di tali film. Nessuno di questi, infatti, riesce a raggiungere i livelli di complessità proposti dal medium videoludico.
L’incontro “soggettivo” tra cinema e videogioco
Anche se la maggior parte delle soggettive cinematografiche ci aiuta solo marginalmente a trovare un collegamento diretto tra mondo videoludico e mondo cinematografico, è possibile individuare alcuni casi di narrazioni cinematografiche in prima persona che si estendono per più di qualche secondo. La maggior parte degli esempi li troviamo in un periodo prettamente recente, che ha permesso di instaurare un dialogo diretto con i videogiochi, accreditati ormai di un'importante rilevanza mediatica. Ciononostante, esistono esempi risalenti a un epoca prevideoludica.
Era, infatti, il 1947 quando sul grande schermo usciva La fuga, film di Delmer Daves con Humphrey Bogart e Lauren Bacall. La particolarità di questa pellicola è che, per una buona ora, lo sguardo dello spettatore coincide con quello del personaggio di Bogart, le cui fattezze non vengono rivelate fino al momento in cui cambierà volto grazie a un'operazione chirurgica. Questa sequenza iniziale di fuga ricorda indubbiamente quanto siamo abituati a vedere oggi attraverso gli occhi di un alter ego digitale che abbiamo anche la possibilità di controllare.
Dello stesso anno è anche Una donna nel lago di Robert Montgomery, il quale compie un passo ulteriore, espandendo l'utilizzo della soggettiva alla totalità della pellicola. Se il primo era stato accolto con non poca esitazione da parte del pubblico, non abituato a narrazioni che non presentassero elementi oggettivi a cui attaccarsi (specialmente nei momenti iniziali), il secondo riscosse ancor meno consensi, dato che il protagonista non ha sostanzialmente un volto (a eccezioni di un paio di momenti durante l'intera durata del film) con il quale il pubblico possa identificarsi e, soprattutto, dal quale possa individuare delle coordinate emotive ben precise.
I tempi erano senz'altro acerbi e, infatti, passerà diverso tempo prima di rivedere la soggettiva protagonista del linguaggio filmico di un prodotto cinematografico. Si parla dell'inizio del nuovo millennio, con progetti come il mastodontico esperimento di Aleksandr Sokurov, Arca Russa, girato, oltre che in soggettiva, in un unico piano sequenza di un'ora e mezza (senza alcun taglio fantasma, il trucco di montaggio più in voga dell'ultimo periodo).
Legato indissolubilmente al mondo videoludico è Doom, film del 2005 diretto da Andrzej Bartkowiak. Anche se il film non è di certo la più apprezzata tra le trasposizioni cinematografiche di un videogioco, non va dimenticato come una caratteristica fondamentale per Doom, come è la visuale in prima persona, sia stata replicata (non nel migliore dei modi, questo è certo) attraverso dispositivi ottici lontani dalla malleabilità scenica del digitale. Ulteriore caso è quello del più recente Hardcore!, altro esponente dei film interamente girati in soggettiva.
Questi ultimi due casi condividono una natura ibridata con quella videoludica. La particolarità sta nel fatto che, come abbiamo visto, la soggettiva cerca nel medium cinematografico un luogo dove proliferare, ma raggiunge una vera maturità solo nel momento in cui entra a contatto con il mondo dei videogiochi. Il che ha portato a un processo inverso, ovvero l'adattamento della soggettiva videoludica alla narrazione cinematografica.
La soggettiva nei videogiochi
Viene da chiedersi, quindi, quanto l'assoggettamento a un panorama visuale tanto pervasivo quanto quello proposto dal cinema abbia influito sul successo dell'utilizzo della prima persona a livello videoludico. Sicuramente, il punto di vista della macchina da presa e quello fornita dalla camera di un videogioco in prima persona coincidono, dato che entrambe replicano una caratteristica umana (o, quantomeno, animale) come gli occhi, indubbiamente limitati dal movimento di un collo sul quale si poggia una testa. Di conseguenza, il risultato è similare, specialmente se accentuato da diverse caratteristiche provenienti in prima battuta da altri media (dal comparto narrativo, a quello visivo, fino ad arrivare a quello sonoro).
Tuttavia, il videogioco aggiunge un elemento in più alla ricetta già collaudata: l'interattività.
Se gli spettatori di Una donna nel lago potevano solo assistere al dipanarsi degli eventi narrati dinanzi ai loro occhi, i videogiocatori alle prese con titoli come Call of Duty, Far Cry, Dying Light hanno il potere di direzionare (seppur in modo limitato) l'azione, il che li mette al centro della scena e propone loro una "libertà" che chi si trova davanti a un'opera filmica non può sperimentare. Lo spettatore cinematografico è un individuo passivo, mentre quello videoludico, al contrario, è attivo (o, almeno, lo è per la maggior parte del tempo).
L'interazione, la possibilità di muovere l'alter ego con cui la narrazione vuole farci identificare, porta anche a un più forte attaccamento nel momento in cui il gioco "si interrompe" per far procedere la narrazione in modo più tradizionale, attraverso le scene d'intermezzo durante le quali le possibilità di scelta del giocatore sono prossime allo zero (a meno che non venga proposto un qualche bivio ai fini dello sviluppo del racconto).
Quello che gli spettatori degli anni Quaranta non erano in grado di accettare come un accostamento puro alle intenzioni del protagonista, in ambito videoludico viene assimilato con maggiore semplicità, un po' perché i tempi e i modi di narrare hanno subito un brusco mutamento, ma soprattutto perché il giocatore ha la possibilità di relazionarsi con l'alter ego sullo schermo in modo più intimo, dal momento che è stato proprio il giocatore a portarlo fino a quel punto critico evidenziato dalla presenza del filmato non interattivo.
Per un ritorno alla soggettiva nelle scene d’intermezzo
Ultimamente, sembra si stia andando a perdere la peculiarità videoludica della soggettiva come veicolo per proporre una narrazione nella sua interezza. Solo nell'ultimo periodo abbiamo assistito a due variazioni nell'ambito dei videogiochi in prima persona. Da un lato abbiamo l'esempio di Far Cry 6, che ha deciso di mettere da parte l'utilizzo della soggettiva durante gli intermezzi in favore di sequenze più prettamente cinematografiche, con campi e controcampi dei personaggi, protagonista compresa. Dall'altro abbiamo l'esempio di Battlefield 2042, che ha completamente abbandonato il panorama narrativo per specializzarsi nel conflitto armato più tradizionale, dove non c'è spazio per storie e nomi, almeno fino al termine della guerra (anche Call of Duty aveva subito un processo simile con Black Ops 4, per poi tornare sui propri passi fino alla sua più recente installazione, Cold War).
In entrambi i casi, si sta perdendo quella voglia di immergere il giocatore all'interno di una narrazione (per quanto efficace che sia) in favore o di un avvicinamento a un medium che si ha evidentemente paura di mettere in discussione, o di un orizzonte puramente dedito al giocatore, considerato come mero consumatore di prodotti destinati a una realtà di massa sempre più soggiogata da narrazioni frammentate ed "esplose".
Ovviamente, ciò non implica che prodotti come quelli che si apprestano ad approdare sul mercato non dovrebbero esistere, ci mancherebbe altro. Si sta solo facendo riferimento a una soluzione visiva e narrativa che, a quanto pare, non genera più quell'interesse negli sviluppatori che li aveva spinti a esplorare la relazione tra personaggio e giocatore attraverso una tecnica che non sortiva lo stesso effetto in altri ambiti. Ora che il cinema ha incontrato il digitale e che la realtà virtuale sta lentamente trovando una sua identità, sarebbe bene tenere in vita questo risultato importante, che ha dato nuova rilevanza a ciò che uno dei medium più influenti del XX secolo ha tentato per anni di sfruttare in modo efficace (non riuscendoci mai completamente).
La maggior parte dei lettori si ricorderà senz'altro il monologo di Vaas in Far Cry 3. Se non fosse stato per quella soggettiva, per lo sguardo stralunato e, al contempo, estremamente lucido dell'antagonista che interpellava direttamente il giocatore, per quella caduta vorticosa fino in acqua, molto probabilmente oggi non sarebbe ricordato praticamente da nessuno; non sarebbe diventato oggetto di culto.
Prospettiva
La prospettiva del giocatore cambia se assiste da un punto di vista esterno a un nemico che avvicina la lama al volto del protagonista, legato a una sedia, o se sperimenta tale scena dalla medesimo prospettiva di quest'ultimo. La narrazione è, volente o nolente, una caratteristica fondamentale di molte produzioni videoludiche, che spesso spinge il consumatore a sviscerare la visione proposta dal suo creatore. Se il giocatore perde presto interesse in quest'ultima, inizierà a provare indifferenza rispetto agli eventi che accadono su schermo, a virare la propria attenzione verso altri elementi del titolo o, addirittura, ad abbandonare il gioco in favore di qualcosa che risulta più interessante.
Una buona narrazione trova le sue fondamenta nel modo in cui l'artefice di quest'ultima decide di proporla al pubblico. Il creatore deve essere in grado di assimilare le vicende che vuole narrare e di proporle nel modo più efficace possibile, rimanendo coerente con quanto si impegna a realizzare. Se si inizia a deviare verso un accostamento forzato ad altri media per raggiungere un pubblico più ampio, c'è il rischio che il risultato finale risulti stridente, poco conforme a quanto si vuole proporre; privato, insomma, di una personalità videoludica forte e coerente, che può confluire in un'evidente scissione identitaria tra media differenti.
Il "gioco" dell'ibridazione tra media è complesso, intricato. Se approcciato in modo superficiale, senza un'idea di base consistente, si rischia di creare un'aberrazione mediale; nuovi mostri, figli comunque di quest'era convulsa e strillata, dove ogni giorno vedono la luce un numero infinitesimamente alto di questi "moderni Prometeo", creature incerte che sognavano l'ibridazione, ma che hanno trovato solo un terreno sterile sul quale non poter piantare le loro radici.
Speriamo che questo approfondimento riguardante la soggettiva tra videogioco e cinema sia stato di vostro interesse. Come al solito, vi aspettiamo nei commenti per sapere qual è il vostro parere in merito.