Giulia Carlotta Zamboni ha già alle spalle dieci anni di carriera da producer nel settore dei videogiochi, con svariati titoli pubblicati lavorando negli studi italiani Storm in a Teacup e Gamera Interactive, e oggi riveste il ruolo di lead producer presso Supermassive Games, lo studio britannico noto per Until Dawn, la serie The Dark Pictures Anthology e il recentemente annunciato Little Nightmares III. E il bello è che la sua carriera nel settore è nata quasi per caso. "Intendiamoci, a me è sempre piaciuto giocare, fin da bambina", ci ha raccontato quando l'abbiamo incontrata al Reboot Develop Blue di Dubrovnik. "Ho iniziato su PC e fra i primi giochi c'era Incoming, uno sparatutto che ricordo molto vagamente... avevo tredici anni... si controllavano vari tipi di veicoli... Poi ho avuto una grande passione/ossessione, che ho trasmesso anche ai miei genitori, per Croc e Croc 2. Ricordo anche un gioco di Ubisoft, Tonic Trouble, che tra l'altro era buggatissimo, non c'erano patch per rimetterlo a posto e ricordo chiaramente che spesso mi toccava ricominciare da capo il livello perché si "rompeva". Mi ricordo che ero ancora più piccola, ancora bambina, e mi divertiva che fosse un gioco popolato da verdure, con nemici che erano carote e pomodori. E poi le console, il Game Boy, e peraltro mi litigavo anche quello coi miei genitori, e ho sempre spaziato molto fra i generi, da Crash Bandicoot a Lara Croft, ovviamente, ma anche Grand Theft Auto." Chiaramente, con una carriera da seguire, il tempo per giocare si riduce, ma Giulia è ancora una giocatrice, anche se alla richiesta di cosa abbia provato di interessante negli ultimi tempi decide di andare sul sicuro: "Toh, faccio l'aziendalista: The Devil In Me".
Come ti divento producer
Nonostante questa passione, però, come tanti altri professionisti affermati del settore, da giovane Giulia non aveva mai pensato che i videogiochi potessero darle una carriera e il suo percorso scolastico l'aveva spinta in tutt'altra direzione. "In realtà io ho studiato legge, con un indirizzo criminologico, perché la criminologia è sempre stata la mia prima passione." Per due anni, Giulia ha lavorato come investigatrice privata, un ruolo che amava molto. Però, ammette, era forse destinata a diventare una producer: "Ho sempre avuto la vocazione per tutto quello che è legato all'organizzazione, anche nella vita privata sono un pochino così. E quindi avevo già fatto esperienze in ambito diverso con un ruolo da project manager."
Poi, nel 2013, ha incontrato Alberto Belli, che stava fondando con altri due soci lo studio Storm in a Teacup. Nonostante l'idea fosse di partire in piccolo, con uno studio dalle dimensioni ridotte, "Alberto era fermamente convinto della necessità di un producer, ma anche che quello sia forse l'unico ruolo che si può imparare pur non avendo seguito un percorso di studi specifico. Perché è chiaro che dopo i venticinque o trent'anni è più complesso reinventarti per esempio come programmatore."
In realtà, ammette Giulia, su questo tema ci sono due scuole di pensiero diverse: "C'è chi ritiene che un buon producer dovrebbe arrivare da un'altra delle discipline e c'è chi pensa che se non hai conoscenze specifiche hai una visione globale più equilibrata e oggettiva, non parti da pregiudizi legati alla tua formaziome." Il rischio, se conosci bene una disciplina, è di voler mettere troppo le mani in quell'ambito, o di avere una visione parziale. Di contro, se non è certo possibile improvvisarsi programmatori da un giorno all'altro, quel paio di nozioni che possono essere utili per comunicare agevolmente coi vari reparti si possono imparare. "Uno degli aspetti che amo di più di questo lavoro è proprio questo. Che poi, anche se hai studiato game production o project management con un focus sui videogiochi, ci sono cose che impari solo con l'esperienza sul campo. Ed è una delle cose che amo di più, l'essere sempre in contatto con più discipline e interlocutori, o magari anche con altri publisher, con la stampa... E quindi impari, impari sempre tantissimo, anche cose che altrimenti non avresti mai incontrato. Di certo, se non avessi fatto la producer, non mi sarei messa a studiare nozioni di modellazione 3D. E questo, col passare del tempo, ti permette di migliorare nel tuo lavoro, perché sviluppi una serie di linguaggi specifici con cui puoi comunicare in maniera migliore con programmatori, designer, 3D artist, reparto audio ecc..."
Un ruolo fondamentale e incompreso
Ma cos'è che fa di preciso una producer? Attorno al ruolo c'è un po' di confusione da parte dei non addetti ai lavori, forse in parte figlia anche di come si scrive di videogame. Tipicamente, i videogiochi vengono identificati con la persona più famosa dello studio di sviluppo, che sia Hideo Kojima, Neil Druckmann, Warren Spector... E poco importa se poi quella persona sia il producer, il director, un designer... Diventa il suo gioco. E forse questo alimenta anche un po' la confusione fra i ruoli: per molta gente producer... director... sembra un po' tutto la stessa roba. Zamboni si fa una risata e concorda, ma sottolinea subito che sono tutti ruoli molto diversi. "Il paragone più ovvio che si possa fare è proprio quello col project manager, pur con le ovvie differenze dovute al prodotto di cui ti occupi. Ci sono parti di questo lavoro che sono ovviamente proprio tipiche del producer di videogiochi, che per inciso non è chi mette i soldi. Perché un altro equivoco, figlio di come funziona quel ruolo in altri settori, è che molti leggono produttore e pensano a chi finanzia."
E quindi? E quindi "il producer è, di base, un facilitatore del lavoro all'interno del team e un punto di contatto e di connessione fra il team di sviluppo vero e proprio (designer, programmatore, game director... ) e chi sta eventualmente sopra, tipo executive producer, studio director, publisher... chiunque sia l'ultimo "gradino" che prende le decisioni. All'atto pratico, quello che facciamo è tendenzialmente organizzare il lavoro. Non facendo micromanagement, ma pianificando le tappe principali, mettendo in atto o migliorando le pipeline, il flusso di lavoro, definendo come si procede per creare questa o quella caratteristica ecc... chiaramente sempre parlando col team."
Perché il producer non prende certamente tutte le decisioni in maniera autonoma su ambiti che non sono i suoi e non può mica andare a dire al programmatore come deve scrivere il codice. Ma vale anche in direzione opposta: il piano di lavoro sta al producer, che lo crea sì tramite uno scambio di idee ma in ultima analisi ne ha la responsabilità, perché è la figura che comunica con tutti i reparti e quindi ha una visione d'insieme. "Conosco esigenze e problematiche di tutti e cerco di far quadrare le cose e far funzionare tutto assieme, secondo i tempi, il budget, mirando a una qualità accettabile."
Chiaramente, nel fare un lavoro di questo tipo, è fondamentale avere la capacità di delegare e non ritrovarsi a fare microgestione di ogni cosa. Devi insomma fidarti delle persone, sapere che sono in grado di fare il loro lavoro. "Poi è chiaro che c'è sempre un po' di attrito, è una lotta, perché non tutti percepiscono correttamente quello che fa il producer. Il grande classico del "Ah, quindi vieni qui a spiegarmi il mio lavoro?", ma no, assolutamente, io devo solo spiegarti che il tuo lavoro è ingranaggio di un meccanismo più grande che comprende il lavoro di tutti gli altri, le richieste di chi sta sopra, quelle che vengono dal reparto marketing, dalle PR... È una macchina veramente enorme e chi lavora nel team di sviluppo effettivo ha, giustamente, una visione più focalizzata sulla sua disciplina, il suo dipartimento, il suo compito. È normale, ma ti fa mancare la visione d'insieme."
Battesimo del fuoco
Giulia Carlotta Zamboni ha iniziato con Storm in a Teacup ritrovandosi quasi immediatamente sul palco di una conferenza Xbox. È stata un'esperienza importante, che le ha permesso di imparare subito una serie di abilità che non sono necessariamente tipiche del producer puro. Nel giro di un mese dall'inizio dei lavori su N.E.R.O: Nothing Ever Remains Obscure, si ritrovarono alla Game Developers Conference, firmarono con Microsoft e finirono all'E3, primo gioco italiano inserito nel programma id@Xbox. "È stato un po' un carnevale di Rio ed è stato francamente anche molto faticoso. Mi sono ritrovata fin da subito a presentare il progetto a diversi tipi di interlocutori, fra possibili publisher, i platform holder eccetera, oltre a gestire il lavoro quotidiano dello studio, le relazioni con gli outsourcer, con la stampa... È stato un bel battesimo del fuoco. Ed è andata bene, soprattutto perché abbiamo annunciato una data d'uscita e siamo riusciti a rispettarla, che per un team nuovo non è necessariamente scontato. Chiudere un progetto nei tempi e nel budget è un buon risultato."
E quella di riuscire a chiudere un progetto, dimostrare di essere in grado di farlo, è una capacità fondamentale, su cui tanti veterani del settore spingono tantissimo quando parlano coi loro colleghi più giovani (è per esempio un punto fermo degli interventi alle fiere di settore da parte di Rami Ismail, da noi intervistato qui). "Sì," conferma Carlotta. "è la cosa fondamentale che tanti sviluppatori giovani, indipendenti, piccoli studi, spesso non percepiscono come la vera priorità. Ma è la prima cosa che devi fare: completare un gioco. Per dimostrare di esserne in grado, agli altri e in fondo anche a te stesso. Anche perché una volta che hai fatto una cosa del genere, poi è più semplice farla di nuovo."
Successivamente all'esperienza con Storm in a Teacup, Zamboni è passata a Gamera Interactive, dove ha lavorato su diversi giochi, ma in particolare su Alaloth: Champions of The Four Kingdoms. Ed è stata una lavorazione lunga, con per altro di mezzo anche la pandemia... "Lo sviluppo vero e proprio di Alaloth, va detto, non è stato lungo come può sembrare da fuori, perché la pandemia ha rallentato parecchio i lavori e ci sono stati tanti imprevisti di natura esterna, diciamo. Quindi non problematiche strettamente legate al nostro lavoro di produzione, che certamente non puoi immaginare di inserire nel piano, anche quando prevedi un "buffer" per le emergenze. Dubito che qualcuno avesse pianificato per una possibile pandemia. Ma è successo di tutto, anche a livello personale, con la perdita di mio padre che certamente non ha aiutato. Però sì, diciamo che forse la questione più problematica è stata l'arrivo del Covid-19, oltretutto capitato in un momento per noi particolare. Ci eravamo appena trasferiti in dei nuovi uffici più grandi, con nuove assunzioni, gente che stava traslocando. Si stava lavorando per far crescere lo studio e migliorarci, migliorare le pipeline, la nostra organizzazione, chiaramente tutto pensato nell'ottica di stare in ufficio. E dopo un paio di settimane si è iniziato a parlare di chiusure, anche di chiusure dei confini regionali, mentre noi avevamo gente che cercava un alloggio lontano da casa e a cui abbiamo dovuto consigliare di tornarsene indietro. Quindi ci siamo trovati a dover riorganizzare tutto in remoto... e in ufficio non ci siamo più tornati. Siamo passati al lavoro in remoto al 100%, chiaramente con la necessità di rielaborare e riorganizzare tutto di conseguenza. Comunque, dopo le prime difficoltà abbiamo trovato l'equilibrio... e a quel punto la situazione era ancora più delicata, perché dopo mesi spesi a riorganizzarci, s'è manifestata la possibilità di tornare in ufficio. E alla fine a quel punto ci siamo resi conto che un po' tutti preferivamo restare a lavorare da casa."
Una nuova avventura
D'altro canto è stata anche un'occasione di crescita. La complessità nell'organizzarsi, anche sulle cose più basilari, ha portato alla creazione di processi e flussi di lavoro che Giulia continua a usare ancora oggi, nel suo nuovo lavoro in Supermassive Games. Presso lo studio con sede a Guildford si è trovata ad affrontare una nuova sfida e anche un salire di livello in termini di ambizioni produttive. "Sì, che poi è anche un po' il motivo per cui ci sono voluta andare. Supermassive è celebre per un certo tipo di giochi molto vicino al cinema, su cui, oggettivamente, non ho mai avuto modo di lavorare così da vicino, pur essendomi occupata di tanti giochi di svariati generi. E quindi era una opportunità molto attraente. E poi sì, chiaramente le dimensioni sono diverse, anche se devo dire che la gestione delle cose non è poi così differente. Fra un team di cinque persone e uno di cinquecento, cambiano le proporzioni, ma le metodologie e i processi che funzionano rimangono quelli. Che poi è il motivo per cui bisogna impostare una buona struttura fin da quando si è piccoli, per essere in grado di adattarsi quando aumentano le dimensioni."
In Supermassive Games, Giulia Carlotta Zamboni riveste il ruolo di lead producer, che sembra presupporre un carico di responsabilità maggiore, con una struttura che prevede magari altri producer al di sotto di lei dedicati ai reparti specifici. Le abbiamo chiesto di spiegarci cosa implichi quel titolo: "È una domanda complessa perché titoli e ruoli non sono universali, ogni studio ne ha una sua interpretazione. Nel mio caso, lead significa che io gestisco l'intero team che sta lavorando sullo sviluppo di un gioco. Quindi in questo caso è così, ho altri membri del team che fanno parte del dipartimento di produzione e che, diciamo, gestisco. Ma appunto non è una cosa universale, dipende molto dallo studio: alcuni usano per esempio titoli come advance, che non è ancora senior ma è più di junior e di standard. Poi c'è chi ha i principal, che sono i senior... più senior. Insomma, è un po'... variabile. Nel mio caso, però, è come uno può immaginarselo."
Nel corso degli anni, Giulia ha lavorato anche con organizzazioni come Women in Games e Diversity Champions. Prendendo spunto da questa sua esperienza, le abbiamo chiesto quali ostacoli incontri in questo settore oggi una donna, anche una che ha alle spalle una carriera significativa come lei. Secondo Zamboni, sono gli stessi ostacoli di sempre, anche se forse in percentuale minore: "Capita ancora di trovarsi nelle solite situazioni, che sono un po' i cliché ma a conti fatti sono reali. Da un po' di tempo, per fortuna, non mi succede più, però sicuramente, in quanto donna, può accadere di partecipare a riunioni circondata da uomini per i quali sembri quasi non esistere, anche se ricopri un ruolo di un certo tipo. Come se tu mi stessi intervistando assieme a un collega e facessi domande solo a lui. E questi sono ostacoli oggettivi, che però secondo me hanno un impatto diverso a seconda anche dell'attitudine caratteriale. In situazioni del genere ho cercato sempre di reagire e di farmi notare, di far presente che la tal domanda andava fatta a me, perché era il mio lavoro. E poi ci sono i classici approcci, diciamo... non particolarmente professionali. Ma anche il fatto che in quanto donna non vieni vista come importante si declina in vari modi, dalle promozioni che tendenzialmente vanno più facilmente al collega maschio... Che poi chiaramente non puoi generalizzare, perché magari il collega maschio se lo meritava di più... Però a volte ci sono situazioni in cui è molto evidente."
C'è però anche un aspetto positivo, che è appunto quello del lavoro portato avanti negli anni dalle varie associazioni e che inizia a mostrare qualche risultato, anche perché, sottolinea Giulia, "il cambiamento è graduale, non può essere radicale dall'oggi al domani. Women in Games ha come logo WIGJ, dove J sta per Jobs. È un'associazione nata su iniziativa di un uomo, tra l'altro, ed era nata come piattaforma di scambio d'informazioni prevalentemente fra donne, per offerte di lavoro, colloqui, come presentarsi al meglio, esperienza eccetera. E poi si è evoluta nell'associazione attuale, che cerca di dare empowerment a tutte quelle che possono essere considerate minoranze, quindi non solo donne. Secondo me ci sono risultati, per esempio è aumentato il numero di donne, persone con disabilità... C'è maggior diversità nel settore, rispetto a un tempo. È una cosa che noto e che noto anche personalmente in Supermassive Games. Speriamo che si riesca a continuare così, per migliorare ulteriormente la situazione."