Il fatto che gli sviluppatori temano sempre di più i videogiocatori tossici e gli influencer è un dato di fatto difficilmente discutibile. Con il passare degli anni, le pretese sono aumentate e le reazioni si sono fatte sempre più scomposte, riuscendo a trasformare quelle che a volte sono anche delle giuste recriminazioni in atti che rasentano il patologico, quando non proprio il criminale, per eccessività.
Lamentele, a volte anche sacrosante, mutano in campagne mirate a distruggere studi di sviluppo o singole persone, spesso sbagliando completamente bersaglio (pensate a quando Alanah Pearce fu accusata per il rinvio di God of War Ragnarok). Nessuno si salva da questa massa ottusa, urlante e sbavante che quando punta la sua preda non la molla finché non l'ha straziata.
Recentemente abbiamo avuto diversi casi di bullismo dei videogiocatori contro gli sviluppatori, come quello di Ron Gilbert, che è stato martoriato da alcuni per lo stile grafico di Return to Monkey Island (sacrosanto che non piaccia, sacrosanto dirlo, ma da gente con il cervello di uno scarafaggio morto andare a minacciare di morte gli sviluppatori) oppure il più recente caso Destiny 2, con gli sviluppatori minacciati per la rimozione di alcuni oggetti di gioco. Per non parlare delle foto di peni inviate a una sviluppatrice di Sony Santa Monica per provare a estorcerle la data d'uscita di God of War Ragnarok.
Così Joe Hobbs, un artista che lavora in Ubisoft, ha colto la palla al balzo per spiegare di nuovo come mai negli ultimi anni c'è stato un grosso distacco tra sviluppatori e comunità: "Pubblicare un gioco dovrebbe essere il momento più bello di uno sviluppatore di videogiochi, ma i videogiocatori e i social media l'hanno resa un'esperienza orrenda per chiunque di noi dichiari pubblicamente a che gioco sta lavorando.
La parte più ridicola è che i videogiocatori si lamentano che gli sviluppatori non comunicano con loro, ma sapete che accade quando lo fanno? I recenti problemi di Destiny 2 ne sono un esempio. Poi ci sono i vari "sistema il gioco", o gente che dice a un grafico "sistema il matchmaking" e così via."
Quindi, se il mondo dei videogiochi non è più quello di un tempo, in cui giocatori e sviluppatori potevano frequentare le stesse fiere comunicando amabilmente di persona per scambiarsi pareri e complimenti, e gente come Andrew Braybrook o Jeff Minter potevano scrivere dei diari di sviluppo estremamente sinceri su riviste molto diffuse, come Zzap!, parlando anche dei problemi avuti durante la lavorazione dei loro giochi senza rischiare il linciaggio, il motivo è da ricercarsi soprattutto in questa esasperazione dei toni e in uno strano convincimento di alcuni videogiocatori per cui la posizione di acquirenti o di potenziali acquirenti dia il diritto di vita o di morte su chi crea i videogiochi,
Naturalmente i grandi publisher tendono a schermare i loro studi con i reparti dediti alla comunicazione con il pubblico, mentre i piccoli sviluppatori diventano improvvisamente silenziosi, eclissandosi dai social media. I motivi di questa situazione sono da ricercarsi sicuramente nella cultura dell'hype, che tende a incendiare sempre di più l'attesa, ma anche, come dice Hobbs, nei nuovi modi di comunicare i videogiochi sui social media: "Streamer e creatori di contenuti, che prosperano sulle reazioni e hanno dei comportamenti eccessivi per avere più visualizzazioni, non fanno che peggiorare le cose. Hanno un grande pubblico e lo aizzano contro gli sviluppatori. Affermano che gli sviluppatori sono cattivi e sbagliano tutto ecc. ecc., poi si chiedono perché non interagiscono con loro... Queste sono persone reali che lavorano tutti i giorni e non hanno bisogno di queste stronzate."
Se a questo aggiungiamo una crassa ignoranza rispetto ai processi di sviluppo dei videogiochi stessi, sottolineata anche da Hobbs, alimentata purtroppo anche da molti professionisti del settore che, pur sapendone poco o nulla, scrivono e dicono spesso delle stupidaggini sesquipedali, abbiamo il quadro degradato con cui lottiamo ormai praticamente tutti i giorni. La cosa che dispiace di più, comunque, è che i videogiocatori, quelli che si presume amino i videogiochi, siano riusciti a mettere a tacere quelli che avrebbero più da dire sull'argomento e che meglio di chiunque altro potrebbero aiutarci a capire come funziona questo medium. Invece si preferisce affidarsi agli ulrlatori di turno, che non danno alcun contributo sensato alla discussione pubblica, finendo solo per avvelenare l'ambiente, seguiti da persone ben felici di aver trovato un capobranco che dica loro cosa fare.
Parliamone è una rubrica d'opinione quotidiana che propone uno spunto di discussione attorno alla notizia del giorno, un piccolo editoriale scritto da un membro della redazione ma che non è necessariamente rappresentativo della linea editoriale di Multiplayer.it.