Souslike. Un termine che si è diffuso come un epidemia nel dizionario dei videogiocatori, portando creativi e addetti ai lavori ad appiccicarlo sui prodotti come fosse un'etichetta sempre chiara e riconoscibile. E pensare che, fino a pochi anni fa, si pronunciavano ancora con zelo frasi come: "Crash Bandicoot: It's About Time è il Dark Souls del peramele", sottintendendo esclusivamente la presenza di un livello di difficoltà più elevato rispetto allo standard. Oggi, invece, si è arrivati ad affermare con discreta sicurezza che titoli come Lies of P, oppure Mortal Shell, o magari anche entità completamente diverse come Remnant 2, cha abbiamo appena recensito, siano dei soulslike fatti e finiti.
Una cosa è certa: quando il nome di un singolo videogioco inizia ad essere utilizzato per definire un'intera ispirazione creativa, significa che gli autori dell'originale hanno lasciato un solco profondissimo nel medium. È capitato a Rogue, la cui eredità spirituale sopravvive nei roguelite moderni, è capitato a Metroid e Castlevania, che hanno codificato i postulati di una formula estremamente diffusa, e adesso sta capitando a Dark Souls, che dopo aver evoluto le fondamenta gettate in Demon's Souls ha tratteggiato contorni decisamente più oscuri rispetto alle opere venute prima.
C'è un grosso ostacolo di fondo: mentre nel corso dei decenni è maturato un certo grado di esperienza e sono emerse eccellenze facilmente riconducibili a ispirazioni quali 'roguelike' o 'metroidvania', i videogiochi "Soulsborne" non sono ancora stati codificati. Nessuno, al momento, può affermare con certezza cosa sia effettivamente un 'soulslike', perché il mistero degli originali Souls deve essere ancora decifrato. Se oggi possiamo supporre con solide basi tecniche che un titolo come Hades sia un fantastico roguelite, e uno come Ori and the Will of the Wisps un'affascinante metroidvania, non è capitato neppure una singola volta che un cosiddetto 'soulslike' raggiungesse il medesimo successo né la stessa eco di un videogioco sviluppato da FromSoftware.
Ha senso definire un altro videogioco un 'soulslike' quando non si è ancora riusciti a inquadrare che cos'è un Souls? C'è chi è fermamente convinto che i titoli di Hidetaka Miyazaki - generati da Demon's Souls e codificati da Dark Souls - siano delle variazioni sul tema del metroidvania tridimensionale, c'è chi è certo che si tratti semplicemente di RPG d'azione in terza persona particolarmente complessi, c'è addirittura chi sostiene che il successo della casa sia il frutto di una sorta di psicosi di massa, perché le sue opere presentano delle grosse mancanze strutturali. Rispondere a questa grande domanda è probabilmente un'impresa impossibile, ma ce n'è una ancora più importante: abbiamo davvero bisogno di parlare di soulslike?
Definire il Souls
Nel corso degli anni sono stati in dozzine tra ricercatori, accademici e game designer a tentare di definire che cosa sia un Souls. Secondo il creatore di Dead Cells Artur Decamp, ad esempio, è semplicemente: "Un mix di azione senza compromessi e meccaniche di gioco profonde. Quando si gioca un soulslike bisogna concentrarsi sull'azione nel tentativo di comprendere tutti i sistemi". Una lettura, questa, che è sì piuttosto vaga ma che è stata lentamente cesellata dagli interventi di altri sviluppatori legati al sottobosco dei soulslike: il padre di Salt and Sanctuary James Silva sostiene che il cuore dei Souls risieda: "Nell'esplorazione intenzionale e significativa, non solo del mondo ma di tutti i sistemi del gioco"; secondo la mente dietro Mortal Shell, Kiron Ramdewar, invece: "I migliori Souls trasmettono un senso di solitudine e di lotta impossibile che opprime quasi il giocatore, e la costruzione del mondo e l'atmosfera sono ugualmente importanti, così come le hitbox che non perdonano e il particolare design dei nemici. Altrettanto importante è il senso di mistero, molto raro da incontrare al giorno d'oggi".
La cosa più interessante, è che quasi tutti questi sviluppatori sembrano convinti che i propri titoli non siano da ricondurre al neonato "genere" dei soulslike. Artur Decamp ha affermato che: "Troppo spesso sento che qualcuno vede una meccanica relativa alla morte, e quella è di per sé sufficiente a spingerlo a ricondurre quel titolo a un soulslike. Forse servirebbe una 'checklist' minima di elementi necessari per definire il genere"; tantissime testimonianze di questo tipo sono state raccolte dal giornalista americano Austin Wood in un'analisi dedicata. Certo è che nella mente collettiva dell'industria si è venuta a realizzare una sorta di lista di qualità che possono ricondurre un'esperienza all'ispirazione soulslike: basti pensare al livello di difficoltà elevato, alle particolari meccaniche relative alla morte, ai sistemi di crescita del personaggio, alla messa in scena tanto dei livelli quanto dei nemici, e addirittura a quella narrazione. Una mole di assiomi, questa, della quale gli addetti ai lavori sembrano avere un disperato bisogno, nel tentativo di incorniciare con discreta sicurezza una determinata ispirazione creativa. Ma abbiamo davvero così tanta necessità di parlare di soulslike?
Roguelike e soulslike: il suffisso "like" ammazza la creatività?
Nel 2008, un gruppo di sviluppatori di videogiochi si è radunato al fine di formulare la "Berlin Interpretation" dei roguelike, una sorta di manifesto volto a identificare tutti i tratti distintivi del genere, al fine di includere nella lista delle varianti "pure" opere come ADOM, Angbang e NetHack, per poi sottolineare le differenze che le separano da mezzosangue come Diablo. Il documento, pubblicato in seguito alla International Roguelike Development Conference del medesimo anno, ha scolpito nella pietra le meccaniche alla base del roguelike, da quel momento in avanti da considerarsi un genere videoludico codificato e finito, e non banalmente una dicitura volta a sottintendere la vicinanza alla struttura di Rogue.
Quello che il gruppo di sviluppatori non poteva immaginare è che proprio a dicembre del 2008 sarebbe stato pubblicato Spelunky dallo sviluppatore indipendente Derek Yu. E Derek Yu non vedeva l'ora di pescare a piene mani dalle meccaniche che amava del genere roguelike, come la morte permanente e la generazione procedurale, prima di ricamarle addosso all'architettura ludica che aveva segnato la sua infanzia, ovvero quella - completamente diversa - del platform in due dimensioni. L'autore aveva preso quella che secondo lui, e solo secondo lui, rappresentava l'anima dei roguelike, con il fine ultimo di trasformarla in qualcosa di nuovo. Una deriva, questa, che non piacque per niente agli autori della Berlin Interpretation, che in seguito alla pubblicazione di Rogue Legacy iniziarono ad attribuire un significato quasi dispregiativo alla definizione "roguelite", dal momento che osava discostarsi dagli assiomi del genere. Ciò che accadde in seguito fu che in molti seguirono l'esempio di Derek Yu, dando i natali a un variopinto mosaico di grandi produzioni simili e al tempo stesso diverse dai roguelike, da The Binding of Isaac fino a Hades, da Darkest Dungeon fino a Slay the Spire e al Returnal di Housemarque. Titoli che, in linea generale, riscossero un successo decisamente maggiore rispetto ai dimenticabili roguelike puri dell'epoca.
Tale situazione è stata analizzata a fondo da Mark Brown, in arte Game Maker's Toolkit, che ha sottolineato come la creazione di un genere a partire da un singolo videogioco abbia quasi sempre portato alla nascita di ispirazioni imperfette, mentre nei casi in cui non è emersa una corrente "like" i creativi sono stati liberi di esprimersi al massimo. Nel caso della saga di Zelda, ad esempio, la mancanza di una dicitura "zeldalike" ha permesso a tantissimi autori di presentare formule semplicemente ispirate ai titoli di Nintendo, come per esempio Okami, o Hyper Light Drifter, oppure ancora Tunic, senza dover sottostare a un determinato manifesto, senza mai cercare di riprodurre fedelmente, ma in modo maldestro l'originale. Di volta in volta, gli sviluppatori pescavano ciò che li aveva fatti innamorare di Hyrule per costruire attorno ai loro pilastri preferiti nuovi mondi autosufficienti.
Un'eventualità, questa, che non si è assolutamente verificata per i soulslike in seguito allo strepitoso successo di Dark Souls: The Surge, Mortal Shell, Code Vein e tantissimi altri emuli, hanno cercato di copiare l'originale formula d'azione in terza persona, l'implementazione della stamina, quella dei falò, i consumabili per il recupero della salute nonché il livello di difficoltà, senza innestare nuove idee e finendo per produrre risultati molto distanti dalla forte identità, il livello di qualità e il grado di pulizia tecnica dei lavori di FromSoftware. La cosa ancor più interessante è che gli sviluppatori che maggiormente si sono avvicinati all'essenza nascosta del Souls lo hanno fatto - proprio come nel caso della nascita dei "roguelite" - imboccando direzioni completamente diverse dalle produzioni che hanno codificato il genere.
Lo strano caso di Hollow Knight
Hollow Knight, metroidvania sviluppato dai creativi indipendenti del Team Cherry e pubblicato in seguito a una lunga e tortuosa operazione di crowdfunding, ha un particolare rapporto con Dark Souls. Le definizioni emergenti dei videogiochi, come per esempio 'metroidvania', iniziano infatti ad acquisire significato solamente in presenza di emuli che riescano a comprendere a fondo l'ispirazione originale. E, in questo momento storico, Hollow Knight è l'opera che più di ogni altra si avvicina all'architettura di Dark Souls, decisamente di più rispetto alle dozzine di altri imitatori che hanno preso a modello i lavori di FromSoftware. È innegabile che il titolo del Team Cherry abbia tantissimi punti in comune con il magnum opus di Hidetaka Miyazaki: la curva della difficoltà, il primato dell'abilità del giocatore, il sistema di checkpoint, la narrazione ambientale, la struttura del mondo, il design dei livelli, l'impatto della morte, il respawn dei nemici, la progressione percettibile, il ruolo delle ricompense, il particolare sfruttamento dei boss e diversi altri elementi minori.
È possibile, dunque, che partendo da Hollow Knight sia molto più facile individuare per sottrazione l'essenza nascosta dietro i videogiochi di FromSoftware, mettendo in evidenza tanto la ricetta segreta quanto gli ingredienti superflui. Secondo questo ragionamento, ad esempio, la formula del videogioco d'azione tridimensionale in terza persona non sarebbe una condizione necessaria e indispensabile per dare vita a un Souls, così come non lo sarebbe la presenza delle statistiche tipiche del genere RPG, oppure l'integrazione di diverse armi ed equipaggiamenti, o ancora il celebre "roll", il sistema di contrattacchi, la barra della stamina, le fiaschette curative limitate e tante altre caratteristiche a lungo erroneamente designate come indispensabili. Proprio come Derek Yu ha fatto con Spelunky, anche gli sviluppatori del Team Cherry hanno preso ispirazione dagli elementi di Dark Souls che più amavano per poi cucirli su una struttura da classico metroidvania, dando vita a una sorta di "soulslite", definizione nella quale - in questo caso - non c'è traccia di significati negativi.
Quello di Hollow Knight, d'altra parte, è un caso particolare. Numerose analisi hanno infatti accostato l'ispirazione di FromSoftware a quella dei classici metroidvania: è Hollow Knight a essere simile a Dark Souls oppure e Dark Souls ad avere un gran numero di punti in comune con l'architettura di quel particolare genere? Questo rappresenta il principale problema quando si tratta di definire un genere a partire da un singolo videogioco, perché quel videogioco tenderà inevitabilmente a poggiare a sua volta su fondamenta ancor più antiche. Miyazaki stesso, per esempio, ha affermato che i Souls non sarebbero mai esistiti senza ICO di Fumito Ueda. Nel tempo, molti studiosi fra cui anche Jeremy Parish - una delle persone che il termine "metroidvania" l'hanno coniato - hanno definito la struttura metroidvania come la messa in scena di aree non lineari e interconnesse, fondate sull'elemento del backtracking e spesso sottese all'ottenimento di potenziamenti o oggetti che allargano di volta in volta la superficie esplorabile. Una definizione, questa, che calza a pennello su tutti i videogiochi di FromSoftware, dai classici "soulsborne" fino addirittura a Sekiro: Shadows Die Twice.
Probabilmente i primi videogiochi di FromSoftware hanno un debito nei confronti dei metroidvania pari a quello che Hollow Knight può vantare nei confronti di Dark Souls, nonostante sia estremamente difficile - se non impossibile - poterli considerare figli dello stesso genere. La grande differenza è che, nel caso dei metroidvania, si è potuto individuare con facilità il pilastro portante del genere, ovvero la presenza di un mondo interconnesso e non lineare, generando una florida corrente di videogiochi totalmente liberi di esplorare nuove formule basate su tale anima.
Le regole dei Souls e la necessità dei "soulslite"
Il caso di Hollow Knight sembra dimostrare che l'idea stessa di associare la struttura soulslike alla formula d'azione in terza persona sia di per sé un errore, suggerendo che sarebbe ora di individuare i semi necessari per far crescere una nuova corrente "soulslite"; nessuno, infatti, è riuscito fino a oggi a copiare in maniera convincente la produzione di FromSoftware. L'irrefrenabile desiderio di imitare la formula di successo ha infatti portato anche a considerare la grezza difficoltà come parte integrante dell'offerta, quando gli originali Souls non sono videogiochi difficili: sono opere pensate per ogni genere di giocatore che vantano semplicemente una curva di apprendimento ripida. Il sistema di progressione non si limita a coinvolgere l'avatar, ma riguarda principalmente il giocatore, che deve apprendere e padroneggiare le meccaniche del combattimento, quelle che regolano l'esplorazione, e tante altre caratteristiche che una volta comprese diventano quasi degli automatismi, un po' come quando si impara a praticare un nuovo sport.
Quali sono, quindi, gli elementi fondamentali dei Souls di FromSoftware attorno ai quali sarebbe possibile ricamare una reale formula "lite"? Pescando dalle opinioni degli sviluppatori, da quelle di studiosi come Tibor Guzsvinecz, e dal tessuto dell'esperienza, sembra che l'intera rivoluzione si possa ricondurre a poche, semplici caratteristiche. Anzitutto c'è la costruzione del mondo e dei livelli, sempre significativa, orientata all'interconnessione, votata all'esplorazione intenzionale e radicata nella conquista di un nuovo checkpoint; dopodiché viene la curva di apprendimento, che fa percepire al giocatore di migliorare costantemente, modificando il modo in cui interagisce con il combattimento e con l'ambientazione, regalando un senso al livello di sfida e alle meccaniche di morte punitive; infine è altrettanto importante la narrazione integrata nel gameplay, sia essa ambientale o racchiusa nel criptico tessuto della lore.
Una volta rispettate queste condizioni, non importa se nell'opera ci sono armi da fuoco (Remnant 2), se non si tratta di un action-RPG in terza persona (Salt and Sanctuary), né se mancano del tutto le meccaniche da gioco di ruolo (Hollow Knight): codificando ulteriormente la formula si corre il rischio concreto di replicare quanto successo ai titoli ispirati a Rogue, che per quasi mezzo secolo non sono riusciti a esprimersi al massimo del potenziale.
Per oltre dieci anni si è cercato di ricalcare perfettamente la formula di Dark Souls, esattamente come successo a Rogue, producendo dozzine di copie carbone incapaci di avvicinare l'offerta originale, e ancora oggi se ne continuano a produrre, basti scrutare l'orizzonte verso Lies of P e Lords of the Fallen, ulteriori action RPG in terza persona legati alla stamina, ai falò, alle cure limitate, alla difficoltà elevata e a tutti i cliché del genere emergente. Se è possibile che si rivelino dei buoni videogiochi, è ormai praticamente una certezza che non possano in alcun modo osservare da pari a pari opere mature come Dark Souls 3 o Elden Ring. Forse la dicitura soulslike e le sue frotte di regole non scritte stanno davvero influenzando negativamente l'evoluzione di tale immaginario. Ma che cos'è, secondo voi, un Souls? Qual è la ricetta segreta che ha permesso a Hidetaka Miyazaki di rivoluzionare i videogiochi contemporanei? Probabilmente, comprendendo a fondo tale base, sarebbe possibile costruire un futuro di grandi successi.