52

Finire un videogioco splendido, oggi, non è per niente bello

Oggi raggiungere i titoli di coda di un videogioco straordinario significa provare un senso di vuoto ancor più marcato del solito: quando capiterà di provare ancora quelle emozioni?

SPECIALE di Lorenzo Mancosu   —   16/05/2025
Maelle, una delle protagoniste di Clair Obscure: Expedition 33

I videogiochi, specialmente i grandi videogiochi, sono costellati di momenti carichi di significato, di sequenze che riescono a lasciare un segno talvolta indelebile, di segmenti che finiscono per imprimersi a fuoco nella memoria. C'è però un istante che somiglia a un processo di catarsi che arriva per sciacquare via ogni emozione accumulata, ed è lo scorrere dei titoli di coda. La manciata di minuti che seguono la chiusura del sipario e lasciano spazio alla riflessione - magari con una splendida musica in sottofondo - aprono l'unica breve finestra in cui pur fissando lo schermo non lo si sta davvero osservando, perché la mente inizia a ripercorrere i passi fondamentali del viaggio appena concluso.

Quando il videogioco in questione si rivela davvero eccezionale può addirittura capitare di voler rimandare quel momento il più possibile, di trovarsi a un passo dalla conclusione e di scegliere consapevolmente di rimanere ancora per un po' in compagnia di quei personaggi, di quel mondo, di quella colonna sonora e di quelle sensazioni. E questo perché, a prescindere dall'arricchimento e dall'appagamento che deriva dalla conclusione di qualsiasi genere di opera, è inevitabile che nel momento in cui si spengono le luci si finisca per percepire un'immancabile sensazione di vuoto. Quella sensazione di vuoto, tuttavia, sta assumendo un significato particolare quando il medium in esame è il videogioco.

A volte si sente l'impulso di voler ritardare i titoli di coda, di trascorrere ancora qualche ora o qualche giorno in un mondo fantastico
A volte si sente l'impulso di voler ritardare i titoli di coda, di trascorrere ancora qualche ora o qualche giorno in un mondo fantastico

Quando ho finito Clair Obscur: Expedition 33 ho sentito la morsa di quel vuoto come non la percepivo da anni e anni. E non perché sia intrinsecamente migliore di altre opere recenti, anzi. Ricordo ancora le emozioni provate in seguito alla meravigliosa battaglia finale di The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom, quelle che hanno accompagnato l'epilogo delle centinaia di ore trascorse in Baldur's Gate III, o ancora il senso di pienezza generato dall'ultimo scontro di Elden Ring. Con Clair Obscur: Expedition 33 però è stato diverso, perché erano esattamente 24 anni che aspettavo un'opera del suo genere, dotata delle sue caratteristiche specifiche, del suo taglio comunicativo, di quel modo di pizzicare le corde emotive che è stato unicamente appannaggio della vecchia Squaresoft.

Finire un videogioco splendido, oggi, fa schifo. Fa schifo perché l'industria è cambiata, le botteghe sono diventate imprese multinazionali, i tempi di sviluppo sono cresciuti a dismisura, le formule amate hanno iniziato a inseguire il denaro, dunque è inevitabile che il vortice di emozioni che accompagna i titoli di coda si trasformi, durante le giornate successive, in una domanda assolutamente scarica di speranze: sapendo che l'ultima volta risale a più di vent'anni fa, quanto bisognerà aspettare prima di vivere nuovamente un'opera che sappia scatenare la medesima reazione?

Arrendersi alla corrente

Non è un segreto che ultimamente molti videogiocatori siano arrabbiati. Le ragioni alla base di quella rabbia sono costantemente sotto indagine, ma è molto probabile che si possano sintetizzare in un sentimento ben preciso, ovvero la delusione. Quando grandi aspettative vengono disattese è inevitabile che si provi una grande frustrazione, e non esistono aspettative più grandi di quelle gonfiate dalla potenza dei ricordi. È proprio chi è cresciuto con la saga di Final Fantasy ad attaccare più ferocemente la moderna Square Enix, così come coloro che hanno investito centinaia di ore nei mondi di Bethesda Softworks si pongono in maniera fredda nei confronti di Starfield, per non parlare degli appassionati storici di saghe come Dragon Age, che nel caso più recente si sono scagliati con violenza contro le vicende di The Veilguard.

Sono trascorsi 14 anni da Skyrim, 6 dall'annuncio di The Elder Scrolls VI, 10 dall'ultimo capitolo di Fallout
Sono trascorsi 14 anni da Skyrim, 6 dall'annuncio di The Elder Scrolls VI, 10 dall'ultimo capitolo di Fallout

L'aggravante, oggi, risiede inevitabilmente nelle folli tempistiche della moderna industria del videogioco. Una grande delusione non si traduce semplicemente in un momento negativo destinato a esaurirsi rapidamente, ma significa doversi arrendere alla consapevolezza che serviranno anni, in certi casi anche decenni prima di assistere a un possibile riscatto, all'emersione di una formula analoga che si riveli davvero soddisfacente. Sempre che quel riscatto sia destinato ad arrivare e, soprattutto, sempre che esista una compagnia che abbia scelto "noi" come pubblico di riferimento, che abbia messo in produzione un'opera vicina al nostro cuore.

Clair Obscur: Expedition 33, la recensione di un GDR imperdibile Clair Obscur: Expedition 33, la recensione di un GDR imperdibile

Finire un videogioco come Clair Obscur: Expedition 33, per esempio, significa affacciarsi su un mercato che ha abbandonato da decenni l'ispirazione del JRPG tattico ad alta fedeltà estetica, e anche scrutando due, tre, cinque, dieci anni nel futuro appare quasi impossibile che possa emergere qualcosa di vagamente simile, se non da parte della stessa Sandfall Interactive. Lo stesso discorso resta valido per ciò che ha rappresentato Baldur's Gate 3, considerando che nel suo specifico caso furono proprio altri sviluppatori di videogiochi AAA a confermare i timori, tuonando frasi del tipo: "Tenete bene a mente che questa è un'eccezione", "Questa non sarà mai la normalità per i giochi di ruolo". Davvero l'unica opzione per il suo pubblico di riferimento sarà attendere che Larian Studios - prendendosi tutto il tempo che riterrà opportuno - pubblichi un nuovo RPG eccezionale?

Non è una questione di combattimento a turni: ci sono atmosfere, sensazioni, tematiche di scrittura e macrostrutture di game design che si stanno perdendo nel tempo
Non è una questione di combattimento a turni: ci sono atmosfere, sensazioni, tematiche di scrittura e macrostrutture di game design che si stanno perdendo nel tempo

È proprio l'orizzonte del medium a non essere rassicurante: sono molte le grandi compagnie a essere mutate tantissimo nel corso degli anni - basti pensare a Blizzard Entertainment o a Bioware - e nonostante l'esagerato numero di produzioni attualmente in cantiere in tutto il mondo in certi casi è inevitabile cedere all'arrendevolezza. Personalmente mi ero completamente arreso all'idea di non provare mai più le stesse emozioni scatenate dai Final Fantasy dell'età dell'oro, poi è arrivata Sandfall Interactive e se possibile ha finito per lasciare un vuoto ancor più profondo. Questo, però, è l'unico lato positivo della vicenda: quando non ci si aspetta nulla si vengono a creare le condizioni ideali per l'emersione di sorprese assolutamente inattese e capaci di colpire nel segno, per l'ascesa di studi meno in vista come ZA/UM (che ironicamente si è già sciolto), Mobius Digital, Sandfall Interactive, Team Cherry, Warhorse e tutti gli altri attori che hanno colto l'attimo per riportare l'emozione al centro del palcoscenico.

La ricetta della bellezza, il vuoto delle idee

So che si tratta di un'opinione impopolare, ma più passa il tempo e più mi convinco che remake e remastered rappresentino una sconfitta senza precedenti per il medium. Non c'è niente di più triste del vedere gruppi di creativi che riportano in vita i loro capolavori del passato accanto a una produzione del presente che, troppo spesso, esce dal confronto con le ossa rotte. È preoccupante, perché nel processo di rispolverare le pietre miliari che hanno saputo fare breccia nel cuore del pubblico si nasconde l'opportunità più unica che rara di rintracciarne e catturarne l'ingrediente segreto, cosa che poi puntualmente non accade.

Se fossero utilizzati per trarre il meglio dal passato in modo da creare un futuro di successi, i remake sarebbero strumenti straordinari
Se fossero utilizzati per trarre il meglio dal passato in modo da creare un futuro di successi, i remake sarebbero strumenti straordinari

Lasciando da parte le opinioni personali, l'ondata di marea di edizioni remake è una naturale conseguenza dei moderni cicli di produzione nonché una perfetta fotografia di tutte le criticità dell'industria contemporanea delle quali abbiamo parlato fino allo sfinimento, ma è inevitabile che porti a riflettere ancora una volta su due elementi: l'avversione al rischio e la fame di guadagni del mercato AAA. Videogiochi come Clair Obscur: Expedition 33 o Baldur's Gate 3 non sarebbero mai potuti nascere all'interno di grandi compagnie - come rimarcato dagli autori stessi - perché le loro priorità sono cambiate. Non solo è probabile che un videogioco come quello di Sandfall Interactive non avrebbe mai visto la luce del sole dentro Ubisoft, ma anche se vi fosse nato sarebbe stato gonfiato, rimaneggiato, magari gli sarebbe stato incollato sopra un marchio di successo per incrementare le proiezioni di vendita, perché le nuove IP, e soprattutto le nuove idee, sono diventate troppo rischiose. E il rischio, per un'industria creativa, è un ingrediente del quale non si può fare a meno.

È naturale provare un vuoto incolmabile quando si finisce un videogioco eccezionale se questo è il panorama che s'incontra alzando la testa: dal momento che le compagnie al vertice dell'industria sono paralizzate dal terrore del rischio e non sembrano avere alcun interesse concreto nel realizzare opere in grado di lasciare un segno, ci si trova costretti ad attendere un allineamento degli astri, un grande colpo di fortuna, l'emersione di uno studio di sviluppo che per miracolo si trova a raccogliere gli investimenti necessari, a poter contare sulla giusta dose di libertà, a racchiudere al suo interno i giusti talenti e a presentarsi sul mercato nell'istante perfetto. Ma ha davvero senso affidarsi ai miracoli sapendo quanto siano rari? I videogiochi che soddisfano pienamente il pubblico di riferimento stanno diventando un'eccezione, tanto che figure come Swen Vincke salgono sopra il palco dei The Game Awards per rimarcare quella che pare una banalità assoluta: "A vincere il Game of the Year sarà il team che realizzerà il videogioco che vorrebbe giocare in prima persona". La sua profezia rischia di rivelarsi esatta per il quarto anno consecutivo.

Ormai servono congiunzioni astrali perché esca un videogioco eccellente: quella che dovrebbe essere la normalità, ovvero un titolo che soddisfa il suo pubblico, sta diventando l'eccezione
Ormai servono congiunzioni astrali perché esca un videogioco eccellente: quella che dovrebbe essere la normalità, ovvero un titolo che soddisfa il suo pubblico, sta diventando l'eccezione

Ormai sono più di cinque anni che, all'emersione di un capolavoro "inaspettato", s'ipotizza che il suo impatto potrebbe portare un cambiamento, che il mercato sarà costretto a trarne insegnamento, che i grandi publisher saranno obbligati a tener conto del suo esempio virtuoso, ma fino a questo momento non è accaduto niente del genere, anzi, sono state cercate soluzioni trasversali, proprio come la diversificazione dei portafogli, la pubblicazione di remake e di sequel a pioggia. E quello che remake e sequel non dicono apertamente, ma si limitano a sussurrare a mezza bocca è che persino molte grandi compagnie sembrano essersi arrese all'idea che per loro oggi sia impossibile proporre attraverso opere originali le stesse sensazioni generate da quelle del passato, vuoi perché è troppo rischioso, vuoi perché è troppo costoso, vuoi perché le idee si sono esaurite.

Alla prossima

Il momento in cui cala il sipario sul videogioco che si è desiderato per ventiquattro anni dovrebbe essere un'occasione di festa, e invece eccomi qui, a scrivere questo articolo, domandandomi quanto tempo dovrà trascorrere prima che si ripeta una simile congiuntura astrale, con la consapevolezza che si sia trattato di un unicum, di un caso fortuito e potenzialmente irripetibile. E inevitabilmente, in momenti come questo, il pensiero va agli appassionati di serie come Starcraft, a chi sta attendendo ormai da quattordici anni il nuovo capitolo di The Elder Scrolls, a tutti quei videogiocatori che non si sentono più parte del pubblico di riferimento delle opere che in passato amavano, a quelli che nel tempo hanno visto spegnersi le loro saghe preferite.

Per quelli che verranno dopo. Speriamo
Per quelli che verranno dopo. Speriamo

Fortunatamente la cosa bella dei videogiochi, specialmente in quest'epoca, è che la fuori è pieno di produzioni straordinarie per tutti i gusti, di creativi ambiziosi, di piccoli studi di sviluppo e imprese di medie dimensioni - esattamente com'erano un tempo Larian Studios o Sandfall Interactive - che proprio in questo momento stanno lavorando ai loro nuovi progetti, stanno scrivendo le loro storie, stanno disegnando i personaggi di cui c'innamoreremo domani. Sì, forse anche a loro servirà un allineamento degli astri per ritagliarsi uno spazio nel bailamme del mercato contemporaneo, ma al momento sembrano le uniche premesse per provare ancora una volta il senso di vuoto che accompagna i titoli di coda, una volta conclusa un'esperienza splendida. Del resto, come si dice, "trovare una roccia e perderla è meglio che non averla mai trovata".