Le imprese occidentali che operano nel settore dei videogiochi hanno un problema: non riescono a rendersi conto che gli sviluppatori sono gli asset più importanti e i più difficili in assoluto da sostituire con successo. Non è una novità che le grandi ondate di licenziamenti nel settore tecnologico abbiano raggiunto un tasso di frequenza allarmante: le ragioni vengono spesso sintetizzate nella risposta alle troppe assunzioni figlie della pandemia, ma soprattutto alla necessità di incrementare il margine agli occhi degli investitori, che nel quadro delle società quotate si trovano sempre più di frequente a tirare i fili delle decisioni. Anche se giustamente la tendenza è quella di stringere l'obiettivo sul destino delle figure professionali che si trovano senza lavoro, c'è un altro punto di vista per certi versi più cinico del quale bisogna tenere conto: le imprese che licenziano finiscono per perdere le competenze e le capacità che gli hanno permesso di raggiungere il successo.
Se domani una società sportiva come il Real Madrid comunicasse agli investitori di aver incrementato il margine operativo licenziando campioni come Vinicious Jr o l'allenatore Carlo Ancelotti, probabilmente si scatenerebbe un'insurrezione perché sarebbe chiaro anche al più disinteressato dei fondi che il valore e la forza dell'impresa ne uscirebbero fortemente indeboliti. Questa è chiaramente un'iperbole, ma nel settore dei videogiochi stiamo vivendo un momento in cui le ondate di licenziamenti sono seguite da report agli azionisti nei quali si festeggia a scena aperta qualche incremento numerico senza tenere minimamente in considerazione la perdita di conoscenza generata da ogni singola partenza.
Ciò accade principalmente per due ragioni. La prima è che gli sviluppatori operano spesso in maniera sotterranea, come denunciato da Jason Rubin quasi vent'anni fa sui palchi della GDC: spesso non si sa chi è stato a ideare una determinata meccanica, a disegnare un mondo di gioco, a scrivere una determinata missione, tanto che nella migliore delle ipotesi si riconduce tutto al nome del grande autore di turno; quando ad andarsene è Hideo Kojima è chiaro a tutti che l'azienda stia perdendo un pezzo importante, ma quando a esser licenziato è un impiegato nessuno tende a farci caso. La seconda ragione, strettamente correlata, è che probabilmente non esiste altro settore in cui le competenze dei grandi investitori sono così distanti dal prodotto effettivo: basta assistere a una qualsiasi delle chiamate pubbliche con gli azionisti per rendersi conto della quasi totale ignoranza della materia da parte di chi gestisce i soldi.
Ciò, ovviamente, ha portato all'instaurazione di leadership che parlano la stessa lingua degli investitori, coronando un lungo processo di sostituzione che ha trascinato nelle posizioni di preminenza dei publisher molte più persone dotate di un background di tipo commerciale rispetto alle figure cresciute a stretto contatto con il prodotto. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: le strade dell'industria sono lastricate dei corpi senza vita di produzioni nate da premesse molto distanti dalla semplice idea di realizzare prima di tutto un bel videogioco, come per esempio Anthem o Suicide Squad: Kill the Justice League, trainate per lo più dalla volontà di penetrare un ricco mercato o spingere un determinato modello di business. Larian Studios e l'industria giapponese hanno pochi dubbi: licenziare i dipendenti non è un atto semplicemente triste, ma è anche controproducente.
Larian Studios parla dei licenziamenti nei videogiochi
Larian Studios, casa di sviluppo che ha dato i natali al Game of the Year Baldur's Gate 3, si è recentemente espressa attraverso le sue figure di preminenza sullo stato generale dell'industria dei videogiochi. A lanciare il sasso per primo è stato proprio il fondatore e amministratore Swen Vincke: dopo essersi unito al coro di protesta che è andato in scena alla GDC 2024, ha voluto parlare "dell'avidità che ha mandato in rovina tutto quanto". "Ho litigato con gli editori per tutta la mia vita e continuo a vedere gli stessi errori ancora e ancora e ancora, e si tratta sempre dei profitti trimestrali. L'unica cosa che conta sono i numeri", ha dichiarato nel suo intervento facendo riferimento alla storia di Larian Studios, lastricata di diatribe con i publisher che potete consultare per esteso in questo articolo.
Poi ha proseguito: "Licenzi tutti e l'anno prossimo dirai: 'merda, ho finito gli sviluppatori', e ricomincerai ad assumere persone, finendo di nuovo prigioniero dello stesso circuito". "Prendetevi cura delle persone," ha concluso. "Non perdete la conoscenza istituzionale che è stata costruita da tutte quelle persone, che perdete ogni volta, così da dover passare attraverso lo stesso ciclo ancora e ancora e ancora".
A fare eco alle sue parole è stato Michael Douse, director of publishing che ha tenuto un discorso in occasione dei Game Developer's Choice Awards. "Dovremmo sentirci umiliati come industria per quello che stiamo vivendo, ma non mi pare che stia accadendo", ha esordito. "Nessuna di queste aziende è a rischio bancarotta, l'unico rischio è quello di scontentare gli investitori", ha continuato Douse, aggiungendo poi una punta di ironia: "Va bene, è così che funzionano le cose: lo scopo di una compagnia quotata è quello di creare crescita per gli azionisti, non di stabilire un clima felice per gli impiegati."
Infine ha concluso: "Diventare una società per azioni ci farebbe guadagnare più soldi, ma sarebbe un controsenso rispetto agli aspetti qualitativi di ciò che stiamo cercando di fare". Il fatto che a parlare siano dipendenti di Larian Studios è molto importante, perché si tratta di una fra le poche compagnie che non stanno percependo neppure lontanamente la presenza di una crisi del settore: sarebbe un ulteriore segnale del fatto che il momento di difficoltà, al quale si risponde con i licenziamenti, stia invece toccando prevalentemente uno specifico modello di business occidentale.
Perché in Giappone succede il contrario?
Quando si parla del mondo dello sviluppo di videogiochi giapponese ci sono diversi elementi di cui è necessario tenere conto: in primo luogo quello del licenziamento è inteso - anche sul piano legislativo - come lo strumento ultimo per incidere sui risultati dell'impresa, da sfruttare nello specifico per evitare l'insolvenza. Oltre alle protezioni statali, in Giappone i licenziamenti sono visti come un indice di scarsa affidabilità dell'azienda, una circostanza capace di farne crollare la reputazione: la società che licenzia non è vista come una buona società, pertanto i candidati migliori finiscono per escluderla dalle proprie scelte. Ovviamente ciò non significa che si tratta di un paradiso: il fenomeno del crunch, per citare un problema a caso, rappresenta la normalità assoluta nei confini del paese, dentro e fuori dal mondo dei videogiochi.
Di contro, nel settore, ci sono diverse voci che si sono espresse sull'argomento licenziamenti e una delle più citate è l'ex presidente di Nintendo Satoru Iwata, che diceva: "Se riduciamo il numero di dipendenti per ottenere migliori risultati finanziari a breve termine, il morale dei dipendenti diminuirà. Sinceramente dubito che i dipendenti che temono di essere licenziati saranno in grado di sviluppare titoli software che potrebbero impressionare le persone in tutto il mondo". Vale la pena ricordare che in tale occasione, nel 2013, Iwata decise di ridurre il proprio stipendio del 50% in modo tale da evitare i licenziamenti necessari per rispondere alle inaspettate perdite generate dal lancio di Wii U.
Più in generale, le compagnie giapponesi hanno tassi di ritenzione dei dipendenti che schiacciano quelli delle società occidentali in ragione del cosiddetto "lifetime employment", concetto "d'assunzione a vita" che si è imposto fin dal dopoguerra e che è facilmente riscontrabile nelle metriche relative alle società di videogiochi. Il recente Dragon's Dogma 2 è stato curato da Hideaki Itsuno, assunto nel 1994, mentre sempre in Capcom Tsujimoto è tutt'ora una delle figure di riferimento di Monster Hunter, sin dalla creazione della serie nel 2004. I reparti creativi di Nintendo sono interamente gestiti dai grandi nomi maturati sulle sponde di NES, SNES e Nintendo 64, tra Shigeru Miyamoto, Eiji Aonuma, Masahiro Sakurai, Katsuya Eguchi, Yoshio Sakamoto e tantissimi altri. Questa situazione non si limita assolutamente ai ruoli dirigenziali, perché capita sempre più spesso di imbattersi in figure che hanno trascorso l'intera carriera nella compagnia prima di salire improvvisamente agli onori della cronaca, come per esempio il director del recente Final Fantasy VII Rebirth Naoki Hamaguchi, che lavora con Square Enix fin dal momento della sua laurea nel 2003.
Fra l'altro Naoki Hamaguchi è stato appena appena nominato nelle file dei manager di Square Enix, seguendo il destino che era già toccato a Naoki Yoshida in seguito agli straordinari risultati raggiunti dal MMORPG Final Fantasy XIV. Una storia simile a quella del sempreverde Hidetaka Miyazaki, artefice della rivoluzione dei soulsborne e oggi presidente di FromSoftware, ma approdato nella compagnia nel 2005 senza alcuna esperienza per lavorare su Armored Core. "Quando si confronta il Giappone con il resto del mondo, è stabile come una roccia", ha recentemente dichiarato Serkan Toto, capo della grande società di consulenza di Tokyo Kantan Games, prima di aggiungere che: "Qui sta succedendo l'esatto opposto rispetto al resto del mondo". A marzo, Capcom ha annunciato di aver aumentato il salario iniziale per i nuovi laureati come risultato di "ulteriori investimenti nel capitale umano e l'acquisizione di talenti eccezionali", l'anno scorso Nintendo ha invece aumentato gli stipendi per renderli competitivi con quelli di altri studi, mentre è di pochi giorni fa la notizia che anche Konami ha incrementato gli stipendi per i neoassunti.
Come si esce da questa impasse?
Sembra una banalità assoluta, ma l'impasse che si è venuta a creare nell'ecosistema dello sviluppo di videogiochi occidentale pare risolvibile solo attraverso un rinnovato focus sul prodotto e sulle persone che lo realizzano di prima mano. È diventato ormai molto difficile limitare i problemi del settore alla crescita dei costi e dei tempi di sviluppo, oppure a specifici modelli disfunzionali: Helldivers 2 è solo l'ennesima dimostrazione che i giochi come servizi possono essere amati e redditizi, mentre ci sono diversi esempi di progetti rimasti in cantiere per anni, costati centinaia di milioni di dollari, che riescono a portare diverse imprese a prosperare, come nel caso del succitato Baldur's Gate 3.
Il classico modello della società quotata si sta dimostrando inadatto a funzionare nell'orbita del mercato dell'intrattenimento, in particolare nel sottobosco dei videogiochi, perché i reparti creativi coincidono sempre più raramente con la fonte delle decisioni: la volontà di realizzare un ottimo prodotto si trova sempre più spesso schiacciata da quella di produrne uno che sia prima di tutto redditizio. Il problema non è semplicemente che gli sviluppatori di videogiochi vengono trattati come numeri anziché come persone, ma che neppure il loro valore viene valutato correttamente. In un mercato interamente fondato sul prodotto dell'ingegno la qualità del prodotto deriva solo ed esclusivamente dalle persone che l'hanno ideato e creato, proprio quelle che oggi sono trattate come ingranaggi facilmente rimpiazzabili.