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Il tabù dello stupro nei videogiochi

Perché i videogiochi non rappresentano la violenza sessuale? Cosa frena gli sviluppatori dal fare ciò che viene fatto normalmente in tutti gli altri medium?

SPECIALE di Simone Tagliaferri   —   05/09/2018

Con l'arrivo al cinema di Revenge, film d'azione diretto da Coralie Fargeat che racconta la storia di Jen (Matilda Lutz), una donna in cerca di vendetta dopo essere stata stuprata da un amico del suo amante, abbiamo provato a riflettere sul perché il tema della violenza sessuale sia considerato un tabù per il mondo dei videogiochi. Insomma, come mai non esistono titoli che rappresentano o riflettono su questo tema così dibattuto? Come mai al medium videoludico sembra essere vietato toccare certi argomenti? Dipende dalla sua natura intrinseca? Oppure da una serie di pregiudizi che non riesce a scrollarsi di dosso?

Azione morale

Nel saggio Hamlet on the Holodek, la studiosa Janet H. Murray introduce per i videogiochi il concetto di agency, che definisce come "la gratificazione che deriva dal potere di compiere azioni significative e di vedere i risultati delle nostre scelte e delle nostre decisioni." L'agency, che possiamo tradurre nel piacere estetico dato dalla 'capacità di agire', presuppone l'esistenza di un mondo che possa essere alterato dinamicamente dall'azione del fruitore, azione che presuppone la capacità di lettura e decodifica dello stesso. Un videogioco non è fatto solo di meccaniche: quello che chiamiamo gameplay non nasce solo dalla somma tra funzioni di gioco e rappresentazione, ma anche dalla proiezione dei valori del giocatore sul tessuto ludico stesso e, di conseguenza, dalla condivisione dei valori espressi dai personaggi rappresentati, nel caso questi ultimi siano ben definiti dalla volontà autoriale. Questi valori non sono innati nell'individuo, ma sono il frutto delle influenze culturali della società in cui è cresciuto. Insomma, il videogioco, come qualsiasi altra opera mediatica, non rappresenta soltanto i valori dei suoi creatori, ma anche quelli del pubblico cui si rivolge, pubblico al quale viene chiesta implicitamente una condivisione degli stessi. Una delle tesi più usate dall'industria dei videogiochi contro l'accusa di offrire prodotti troppo violenti è che, in fondo, quelle che muoiono sullo schermo non sono persone reali, ma virtuali e che, quindi, sparandogli non si fa del male a nessuno. Anche se apparentemente ineccepibile, si tratta di una visione abbastanza ingenua del rapporto tra opera e fruizione, che trasforma il videogioco in un manufatto amorale, che non nasce da alcuna causa e non produce alcun effetto. Insomma, il videogiocatore sarebbe completamente indifferente a ciò che viene rappresentato e si limiterebbe a godere nel poter fare qualcosa che nella realtà non gli è concesso, ritornando poi sé stesso una volta uscito dal gioco. Se così fosse, come ci si spiegherebbe il fatto che uno dei più grossi tabù dei videogiochi, almeno in quelli occidentali, sia la violenza sessuale? L'azione simulata di violentare qualcuno equivarrebbe a una violenza sessuale vera?

Concetto di tabù

Il concetto di tabù fu introdotto in occidente dagli studi etnografici di inizio novecento, ma divenne più noto per l'uso che ne fece Sigmund Freud nel saggio Totem e Tabù (1913). La parola tabù ha origini polinesiane e veniva usata da alcune tribù per indicare una proibizione sacra, ossia di origine divina, che poteva riguardare, oggetti, animali, persone o comportamenti. Freud, mettendola in analogia con le nevrosi, la definisce:

"un'antichissima proibizione, imposta dall'esterno, ad opera di un'autorità, e rivolta ai desideri più intensi dell'uomo. Il desiderio di trasgredirlo permane nel suo inconscio; perciò, l'uomo che obbedisce al tabù acquista un atteggiamento ambivalente rispetto a ciò che è colpito dal tabù.
La forza magica che è propria dei tabù dipende dalla sua capacità di indurre l'uomo in tentazione; e se assume la forma di un contagio, è proprio perché l'esempio è contagioso, ed ancora perché i desideri proibiti vanno spostandosi nell'inconscio da un oggetto ad un altro."

Per Freud i tabù sono all'origine della società stessa, perché vietando certi comportamenti, svolgono, come scritto da Roberto di Letizia nel saggio Sesso e Mondi Virtuali, pubblicato nella raccolta Virtual Erotico (Edizioni Unicopoli, 2015), "una specifica funzione utilitaristica che consiste nel salvaguardare i rapporti sociali dei membri di una comunità. Morale e religione, di conseguenza, nascono solo come sistemi ideologici di giustificazione di questi obblighi, il che significa che il loro scopo originario è l'inibizione di quei comportamenti che possono danneggiare l'esistenza stessa della società o minacciare la vita in comune." Insomma, nonostante l'accezione negativa che la società capitalista moderna ha dato al concetto di tabù, identificando alcuni divieti essenzialmente in freni al consumo (il grande tabù della nostra società), è innegabile la loro funzione regolatrice, sia per la vita comune, sia per lo sviluppo culturale.

Violenza sessuale attiva nei videogiochi

Nei videogiochi la violenza viene sempre narrativizzata in modo tale da essere accettabile per i valori morali del giocatore medio. Del resto, come avrete capito, il giocatore può trarre piacere dalle sue azioni solo se quanto rappresentato è in accordo con essi. Chiedersi perché un nemico possa essere ucciso e non stuprato alla luce di quanto scritto sopra diventa quasi ridondante: la gratificazione ipotetica derivante anche solo dalla possibilità astratta di poter stuprare, violando uno dei più forti tabù della nostra società, creerebbe un cortocircuito insostenibile per la maggior parte degli individui, che si troverebbero improvvisamente esposti senza protezioni a quell'ambivalenza tra desiderio e repulsione così ben teorizzata da Freud.

La violenza fisica è codificata in modo differente dallo stupro all'interno delle società occidentali. Le diverse legislazioni prevedono infatti delle circostanze che la giustificano e, in un certo senso, la esaltano. Tutti gli stati dispongono di forze di polizia armate cui viene assegnato un dato potere repressivo e quasi tutti dispongono di eserciti organizzati che possono essere impiegati nei teatri di guerra. Il soldato che combatte per difendere la sua nazione è connotato come un eroe, il poliziotto che combatte contro la criminalità anche. Uccidono come ultima risorsa (secondo la retorica comune), ma lo fanno loro malgrado e sempre per un fine più alto. Mettere il giocatore nei panni di un poliziotto o di un soldato equivale a fargli assumere i loro valori istituzionali, quindi ha una valenza considerata essenzialmente positiva; basta che i loro bersagli siano dei "nemici" della società di riferimento, ossia in antitesi con i valori difesi. Per lo stupro è diverso: non c'è una legislazione occidentale che preveda eccezioni ammettendolo in qualche misura. Non c'è insomma la possibilità di connotarlo eroicamente, quindi non esiste un modo per renderlo accettabile narrativamente. La violenza sessuale è sempre un abuso: una manifestazione di violenza volta al soddisfacimento di una pulsione bestiale. È violazione e svilimento di una persona e del suo libero arbitrio, in entrambe le direzioni.

Di conseguenza, uno stupratore non potrà mai essere un eroe con cui il giocatore possa empatizzare o con cui possa immedesimarsi senza sentirsi profondamente a disagio o addirittura in colpa. Per questo motivo non stupisce che i videogiochi in cui si vestono i panni di stupratori siano sparuti, poco noti e molto criticati. Solitamente faticano a emergere dai circuiti underground in cui vengono prodotti. Tra i più famosi citiamo Custer's Revenge, titolo del 1982 per Atari 2600 in cui il generale Custer deve raggiungere una donna indiana legata a un cactus per violentarla; ed Edmund, un oscuro titolo indie per PC in cui il giocatore vestiva i panni dello stupratore e del suo assassino, in una storia breve di violenza e vendetta.

Violenza sessuale nei videogiochi giapponesi

Siamo perfettamente coscienti che la violenza sessuale è affrontata in modo molto differente dall'industria culturale giapponese rispetto a quella occidentale. Abbiamo volutamente scelto di non parlarne nell'articolo per non cadere nell'errore di metterle sullo stesso piano, rischiando di peccare di eccessiva generalizzazione. In Giappone la rappresentazione della sessualità e delle sue perversioni è regolata in modo completamente differente dal nostro, tanto che l'industria culturale locale ammette titoli in cui il protagonista sia uno stupratore e in cui siano presenti delle forme di tortura. Nel caso se ne riparlerà in un altro speciale.

La rappresentazione della violenza sessuale

Il motivo, o uno dei motivi (non pretendiamo certo di esaurire l'argomento con un singolo articolo), per cui al giocatore non viene assegnato il ruolo attivo dello stupratore dovrebbe ormai essere abbastanza chiaro. Ciò non spiega però perché per i videogiochi sia tabù anche la sola rappresentazione della violenza sessuale, ossia perché gli sviluppatori non si arrischino mai ad affrontare il tema come cinema, letteratura, teatro e le altre arti fanno invece regolarmente. Il primo videogioco di un certo richiamo ad aver rappresentato una scena di violenza sessuale domestica fu l'avventura grafica Phantasmagoria (1995) di Roberta Williams.

La trama del gioco racconta le vicende di Adrienne e di suo marito Don che risvegliano per sbaglio lo spirito di un demone che vive in un'antica magione. In una sequenza particolare Don, ormai posseduto, violenta Adrienne. La scena, per niente compiaciuta, è scritta molto bene e serve per mostrare l'emersione della bestialità dell'uomo sotto l'influsso demoniaco o, meglio, il riaffiorare del suo rimosso. I due non sono nudi ma ciò che accade lascia poco spazio all'interpretazione. Si tratta di un momento dalla forte valenza simbolica, in linea con l'evoluzione dei personaggi, che in un film o in un romanzo non avrebbe scandalizzato nessuno, ma che nel mondo dei videogiochi fu aspramente criticato e subì delle censure, rimanendo un unicum. Lo è al punto che attualmente non esistono altri videogiochi che abbiano rappresentato così esplicitamente il tema della violenza sessuale. Alcuni hanno scelto un modo indiretto per farlo, come ad esempio Silent Hill 2 (2001) in cui viene utilizzato per caratterizzare l'inquietante Pyramid Head, che viene mostrato mentre violenta due manichini. Purtroppo in tal senso l'industria videoludica non è mai riuscita a emanciparsi. Complici anche i videogiocatori, molti continuano a considerare i videogiochi come prodotti per bambini che non devono toccare certi temi per nessun motivo. Del resto ogni volta che l'argomento "violenza sessuale" ha sfiorato un videogioco ne sono derivate polemiche a non finire. Ad esempio il blogger evangelico Kevin McCullough sollevò un fortissimo clamore accusando Mass Effect (2007) di contenere scene di "strupro e sodomia", nonostante nel gameplay non ci fosse niente di simile. Qualcosa del genere successe anche con il primo capitolo della serie reboot di Tomb Raider (2013), la una scena in cui uno dei cattivi tentava di violentare un'ancora giovane e inesperta Lara scatenò un vero putiferio.

L'industria videoludica di suo non si è mai dimostrata troppo interessata a difendere le potenzialità espressive del medium, autocensurandosi senza problemi per evitare attacchi e polemiche. Del resto i toni delle ultime produzioni tripla A sono abbastanza chiari in tal senso e, pur a fronte di direzioni più sicure e di una maggiore professionalità nella scrittura, la maggior parte delle storie che raccontano sono controllatissime e di livello tristemente adolescenziale. In un quadro del genere non c'è spazio per affrontare temi controversi e maturi, complice anche una critica specializzata latitante che si occupa più di risoluzioni che di problemi espressivi. La situazione che si è creata ha del paradossale, con i videogiochi quasi completamente assenti dal dibattito degli ultimi anni sulla violenza sessuale (a parte per alcuni oscuri titoli indipendenti). Del resto non è la prima volta che il medium videoludico si dimostra impermeabile alla realtà e a questo punto è giusto chiedersi se sia redimibile o meno e, soprattutto, se il suo pubblico voglia che lo sia.