Nonostante la giovanissima età, Dragon Age: The Veilguard è già riuscito a emergere come uno fra i videogiochi più discussi di tutti i tempi: ciò non è accaduto solamente in virtù della diatriba relativa alla cosiddetta "cultura woke", in realtà piuttosto marginale, bensì per una moltitudine di fattori che spaziano dalla qualità della scrittura all'accoglienza della critica anglosassone, dalla comparazione con altri giochi di ruolo al costante procedimento di edulcorazione che sembra caratterizzare la maggior parte delle produzioni AAA occidentali.
Se esiste un elemento che è stato in grado d'infiammare la fetta più grande del pubblico pagante, quello risiede in due caratteristiche specifiche di The Veilguard: in primo luogo si tratta di un episodio apocrifo della saga di Dragon Age, una serie che può contare sulla spinta di una nicchia di pubblico molto affezionata, e in seconda istanza porta impresso sulla copertina l'altisonante nome di BioWare, leggendario studio di sviluppo che ha scritto la storia dei giochi di ruolo a suon di capolavori.
E BioWare si può considerare quasi un simbolo della trasformazione che sta caratterizzando l'era contemporanea della storia dei videogiochi, dal momento che fa parte di quel ricco novero di aziende che, dell'architettura originale, hanno mantenuto solo ed esclusivamente il nome: assieme ad altre fucine come per esempio Blizzard Entertainment, oggi si presenta come un fantasma di ciò che era stata, avendo tagliato i ponti con la maggior parte dei più storici fra i creativi prima di tentare di esplorare nuove correnti, smarrendo lungo il percorso la propria cifra stilistica.
Oggi viene spontaneo chiedersi come sia possibile che la stessa casa di sviluppo che ha partorito pietre miliari come Star Wars: Knights of the Old Republic o Baldur's Gate possa presentarsi sul mercato con un'opera dotata del taglio narrativo ed espressivo di Dragon Age: The Veilguard, e questa è una constatazione che tocca fare a prescindere dalla qualità percepita del titolo in esame, prendendo anche solo in considerazione le atmosfere e le tonalità della scrittura. Vale la pena ripercorrere i momenti chiave della storia di BioWare, cercando di capire dove si nascondano le ragioni dietro la sua trasformazione nella più classica nave di Teseo.
Old BioWare, good old BioWare
Quella di BioWare è una storia comune a numerose case di sviluppo la cui genesi risale agli anni '90, solo un pelo più particolare: non analizzeremo il perché e il percome della fondazione perché si tratta di dinamiche poco interessanti, ma basti sapere che tutto ha avuto inizio dall'amicizia fra una coppia di appassionati di videogiochi neolaureati in medicina, ovvero Ray Muzyka e Greg Zeschuk, cui presto si unì Augustine Yip, la terza firma dietro un semplicissimo videogioco di simulazione chirurgica da cui prese forma proprio il nome "BioWare".
Nella storia di BioWare l'appuntamento con il destino ha un nome ben preciso e tale nome è quello di Interplay Entertainment. Ora, non serve avere dimestichezza con le peripezie della società di Brian Fargo per rendersi conto che questa compagnia avesse un grandissimo fiuto per il talento: oltre ad aver ideato e sviluppato universi virtuali come quelli di Wasteland e di Fallout, sotto la sua egida servirono autori eccelsi come quelli di Black Isle Studios, ma furono anche scoperte promettenti case di distribuzione come una certa CD Projekt proveniente dalla Polonia, allora totalmente sconosciuta.
Ciò che conta è che il primo "vero" videogioco di BioWare, ovvero quel Shattered Steel che viveva dell'ispirazione a MechWarrior, fu pubblicato proprio da una Interplay che arrivò a nutrire molto rispetto per quel piccolo studio di sviluppo canadese, talmente tanto da arrivare ad affidargli la licenza di Dungeons & Dragons. Da quella concessione prese forma un Baldur's Gate che, oltre a rivelarsi uno fra i giochi di ruolo più amati di tutti i tempi, presentò sul grande palcoscenico internazionale una serie di nomi ricorrenti: quello del designer James Ohlen, quelli degli scrittori Lukas Kristjanson e Rob Bartel, quello dell'artista John Gallagher, quello del programmatore Daniel Morris e tante altre firme a cui oggi si tende a ricondurre le atmosfere della "Old BioWare".
Gli anni successivi a quel grande successo - che riuscì inaspettatamente a eguagliare i numeri di Diablo - furono caratterizzati da uno schema molto simile, fondato sull'emersione di grandi capolavori ciascuno capace di introdurre al pubblico creativi d'altissimo livello grazie all'intersezione fra ambientazioni oscure e personaggi tridimensionali: il progetto Baldur's Gate 2: Shadows of Amn assieme a espansioni del calibro di Throne of Bhaal fu per esempio legato al compositore Inon Zur, allo scrittore Drew Karpishyn e al designer Kevin Mertens, al tempo stesso Star Wars: Knights of the Old Republic fu affidato alle brillanti cure creative di Casey Hudson, mentre Neverwinter Nights prese forma attorno alle idee di Trent Oster e all'immaginario di Brent Knowles.
Insomma, nell'arco di pochissimi anni BioWare, coltivando i rapporti con Interplay e Infogrames, si era trasformato nel collettivo di maggior successo dell'enorme sottobosco dei videogiochi di ruolo, dando modo di esprimersi ad alcuni fra i più talentuosi scrittori e artisti degli anni 2000, ma soprattutto portando una vera rivoluzione tecnologica, dal momento che il suo Infinity Engine fu utilizzato per creare altri capolavori a firma di Black Isle come Planescape: Torment e Icewind Dale. Il medesimo ciclo creativo prese forma anche nei confini di quella che è considerata l'ultima fatica della vecchia BioWare, ovvero Jade Empire, celebre action-RPG che mise sul piedistallo Jim Bishop, già progettista di molti dei sistemi alla base di Neverwinter Nights, assieme al designer Kevin Martens e all'artista Matt Goldman.
Presto, tuttavia, le cose avrebbero iniziato a cambiare: il casus belli si verificò nel 2005, quando la firm di private equity Elevation Partner istituì un nuovo fondo chiamato VG Holding Corp. La compagnia di speculazione decise di spendere $300 milioni per portare sotto il proprio ombrello BioWare e Pandemic Studios lasciando a entrambe indipendenza organizzativa e creativa, ma di fatto impiegò giusto due anni prima di trovare un acquirente e intascare $500 milioni. Nel 2007, infatti, il CEO John Riccitiello di Electronic Arts - che già era partner di Elevation - prese la decisione di acquisire BioWare e Pandemic per $860 milioni, assumendone di fatto il completo controllo.
L'acquisizione e il primo esodo di autori
Il figlio di mezzo di questa grande operazione finanziaria si chiamava Mass Effect, l'ultimo progetto sul quale BioWare poté contare su un certo grado d'indipendenza creativa, ma soprattutto una totale autonomia organizzativa: l'obiettivo era quello di adeguare la formula GDR di BioWare al nuovo standard cinematografico del mercato, pur mantenendo la scrittura in un ruolo di assoluta preminenza. Fu così che il debutto nel 2007 finì per premiare la visione della compagnia, pur se l'architettura generale dello studio aveva da tempo iniziato a mutare.
Subito dopo l'acquisizione, Electronic Arts decise di fondere BioWare con Mythyc Entertainment al fine di mettere in piedi una macchina capace di dominare il sottobosco degli RPG, ma le reali mire della compagnia di Riccitiello avevano più a che fare con il settore MMORPG. Alla BioWare originale di Edmonton furono affiancati tre ulteriori studi, molti dei quali creati appositamente per sostenere la produzione dell'universo online di Star Wars: Knights of the Old Republic, nel quale i manager avevano inquadrato una potenziale hit basandosi sulla lezione impartita da Neverwinter Nights, che pur non essendo "massivo" aveva dimostrato tutto il valore delle esperienze online.
Tale visione venne ulteriormente esacerbata dal fatto che nel corso degli anni 2000 furono cancellati tantissimi progetti, a partire dal sequel di Jade Empire, passando per un RPG basato su una IP originale chiamata Revolver, per arrivare infine alla goccia che fece traboccare il vaso, ovvero Agent, un altro gioco di ruolo ambientato nel mondo dello spionaggio alla cui cancellazione si tende ad associare una frattura insanabile nelle file dello studio di sviluppo.
Il primo a lasciare fu infatti Trent Oster, presente sin dall'istante della fondazione e principale creativo dietro Neverwinter Nights, e decise di farlo proprio perché Agent sarebbe stato un progetto di sua responsabilità. A seguirlo furono Brent Knowles e Kevin Martens, due figure chiave nello sviluppo artistico di Baldur's Gate 2, Neverwinter Nights e Jade Empire. Tuttavia, nel pieno di un'ulteriore riorganizzazione interna volta a ridimensionare le mire nel sottobosco MMORPG, BioWare riuscì comunque a pubblicare Dragon Age: Origins nel 2009, avendo successo nel compito apparentemente impossibile di fornire un seguito spirituale a Neverwinter Nights senza fare affidamento sulla licenza di Dungeons & Dragons grazie alla straordinaria scrittura del mondo supervisionata da David Gaider e Mike Laidlaw.
Gli anni 2010 e la "fine" di BioWare
L'inizio del 2010 di BioWare è un periodo oltremodo noto e ancora piuttosto fresco nella memoria dei videogiocatori: dopo essersi aperto con lo straordinario successo di Mass Effect 2, nel 2011 vide la "BioWare Magic" - ovvero la capacità di salvare giochi sull'orlo del collasso - traghettare fino al lancio Dragon Age 2, dopodiché sparò il colpo a salve di Star Wars: The Old Republic che mise in discussione l'intera strategia di Electronic Arts mentre Mass Effect 3 chiudeva fra le polemiche il cerchio aperto nel 2007 da Casey Hudson, infine Dragon Age: Inquisition riuscì addirittura a intascare il GOTY 2014. Ma nonostante questa serie di peripezie e l'assegnazione della statuetta ai The Game Awards, dietro le quinte stavano accadendo cose molto più importanti.
Nel settembre del 2012, per la precisione il giorno dopo l'annuncio ufficiale di Dragon Age: Inquisition, i fondatori e designer Ray Muzyka e Greg Zeschuk abbandonarono definitivamente BioWare, così Electronic Arts scelse di rimpiazzarli attraverso un valzer che ebbe inizio dall'ex CEO di Major League Gaming Matthew Bromberg. Un paio d'anni più tardi, il principale autore di Mass Effect Casey Hudson (che poi sarebbe tornato giusto per il lancio di Anthem) decise a sua volta di abbandonare la nave, seguito a stretto giro dal capo scrittore di Dragon Age David Gaider.
Questo fu solo l'inizio di un esodo senza precedenti che fu legato principalmente a due produzioni, ovvero quella del sequel apocrifo Mass Effect: Andromeda nonché quella del game as a service Anthem, che fu messo in cantiere per rispondere al successo planetario di Destiny. In quel periodo se ne andarono, fra gli altri, il programmatore Aaryn Flynn, lo scrittore Mike Laidlaw, direttore creativo di Jade Empire e Dragon Age , il leggendario autore Drew Karpishyn che era stato lead writer di quasi tutti i progetti della compagnia, nonché l'autore di Baldur's Gate e lead designer di Neverwinter Nights James Ohlen. Parlando di quel periodo, l'ideatore di Dragon Age David Gaider avrebbe dichiarato: "Noi scrittori eravamo visti come un albatro che teneva indietro la compagnia. Quando me ne sono andato nel 2016 tutte le persone al comando chiedevano: 'Come possiamo avere MENO scrittura?'. Secondo loro le belle storie sarebbero spuntate così, con la bacchetta magica".
La disastrosa accoglienza riservata ad Anthem fu accompagnata da diverse altre partenze, come quelle dell'animatore Steven Gilmour, del programmatore principale di Dragon Age Jacques Lebrun, nonché di tante altre figure con un elevato grado di professionalità come Mark Darrah - oggi molto attivo sui social network - il leggendario artista Matt Goldman e il tecnico Fernando Melo. Insomma, l'emorragia di creativi fu tale e tanta da presentare dinanzi ai cancelli del 2020 una BioWare completamente svuotata dei suoi talenti storici ma determinata a proseguire il suo cammino, presentando il teaser di un nuovo capitolo di Mass Effect e portando avanti i lavori sul quarto episodio nella saga di Dragon Age.