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Capcom: inferno e ritorno

Un resoconto sulle recenti vicissitudini di Capcom, dal baratro al ritorno alle vette dei tempi gloriosi.

SPECIALE di Giorgio Melani   —   12/03/2019

"Capcom is back!" ha affermato di recente il CEO della compagnia, Kiichira Urata, in un breve video pubblicato su Twitter, e ce lo immaginiamo facilmente disegnato come un manga, con le due dita in segno di vittoria e la frase enorme, in spigolosi katakana dai bordi taglienti, nel tipico misto di tracotanza e ironia di certi personaggi nipponici. In verità, Urata è una persona alquanto lontana da un atteggiamento del genere, ma il ricorso allo stereotipo giapponese è quasi d'obbligo, perché la storia di Capcom è un po' la storia dello stesso Giappone videoludico e il suo andamento nel panorama dello sviluppo è incredibilmente corrispondente a quello generale di tutto il movimento nipponico. Al di là dei diversi periodi storici, Capcom è sempre rimasta una sorta di paradigma dello sviluppo dei videogiochi in Giappone, nel bene e nel male, grazie alle radici che affondano nella storia di questa industria e della quantità di brand iconici che fanno parte del suo carnet, accumulatisi nei suoi quaranta anni d'esistenza ai vertici del panorama videoludico.

Ci sono stati però alti e bassi, soprattutto nella sua storia recente, che hanno ricalcato appunto l'andamento della produzione di videogiochi nel Sol Levante. Dopo un'evoluzione costante dagli anni 80 ai primi 2000, questa ha iniziato a conoscere un po' di declino soprattutto nel corso della generazione scorsa, quando i cambiamenti nella produzione sembravano aver lasciato piuttosto spiazzati i publisher storici. È difficile parlare di vera e propria crisi per Capcom, che ha sempre comunque tentato di cambiare e adattarsi al contesto cangiante ben più di altre realtà, specialmente quando molte altre compagnie connazionali si sono ritrovate a dover fare fronte alla perdita della leadership tecnologica e alla necessità di modificare la propria organizzazione per seguire il cambiamento strutturale del mercato, ma c'è stato sicuramente un periodo di flessione importante prima di quest'ultimo ritorno sulla cresta dell'onda.

Capcom: inferno e ritorno

Apertura ad occidente

Il modello tradizionale nello stile di sviluppo e produzione può essere rilevato fino al pieno periodo di PlayStation 2, quando Capcom aveva proseguito nel suo percorso di evoluzione ed espansione dei brand storici, aggiungendo solitamente anche diverse nuove proprietà intellettuali secondo il suo solito modus operandi, caratteristica peraltro che era emersa con una certa forza nel (breve) momento di parthership con Nintendo su GameCube e l'annuncio dei famosi Capcom Five, ridotti poi a quattro diventati multipiattaforma, ma comunque sempre indicativi della volontà della compagnia di investire in nuovi progetti, al di là del grande Resident Evil 4 che avrebbe segnato la generazione intera. L'arrivo di Xbox 360 e PlayStation 3 corrispose a importanti variazioni nell'assetto dell'industria e nei rapporti di forza tra i produttori principali e tra le differenti zone geografiche. Di fronte all'avanzare tecnologico e organizzativo degli sviluppatori e dei publisher esteri, Capcom reagì con una netta apertura verso l'occidente, sia per quanto riguarda idee e influenze sia per lo sfruttamento diretto di asset e personale.

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La produzione interna è rimasta sempre ampia e importante, ma largo spazio fu dato all'outsourcing, portando avanti diversi progetti in contemporanea e dal respiro più ampio, idealmente più indicati al pubblico globale. I risultati in questo periodo, che possiamo considerare il quinquennio dopo il 2005, sono stati altalenanti ma hanno sempre dimostrato quantomeno una certa vitalità del publisher. Non è un caso se i prodotti emersi con maggiore forza siano quelli nipponici e prodotti internamente come Street Fighter IV, Devil May Cry 4, le produzioni di Clover Studio come Okami (la cui chiusura nel 2006 è da molti considerata l'inizio della crisi, con l'uscita di scena di Shinji Mikami) o il pur criticato Resident Evil 5, mentre fortune più alterne hanno avuto le nuove proprietà intellettuali o i tentativi di rilancio di brand storici, un grande calderone dove troviamo esperienze nettamente fallimentari come Bionic Command e Dark Void o nuove serie che sono riuscite a raggiungere una certa importanza, pur calando sulla distanza, come Lost Planet e Dead Rising.

Capcom: inferno e ritorno

Crisi di idee

Il periodo intorno al 2010 e immediatamente successivo può essere considerato quello della crisi conclamata di Capcom, anche se il publisher ha comunque continuato a ottenere buoni risultati sul piano finanziario e a far uscire giochi di grande livello sul mercato. Le famigerate dichiarazioni di Keiji Inafune, diventato nel frattempo Senior Corporate Officer della compagnia, sul fallimento dell'industria videoludica giapponese, possono essere considerate paradigmatiche di questo periodo difficile. Al Tokyo Game Show del 2009, Inafune espresse senza mezzi termini il suo disappunto per la situazione dello sviluppo nel suo paese: "Il Giappone è finito, abbiamo toccato il fondo. La nostra industria videoludica è conclusa", a cui fece seguito il suo abbandono della compagnia per fondare ComCept e iniziare l'avventura da indie, altro ambito in cui il dislivello con l'occidente era effettivamente notevole.

Capcom: inferno e ritorno


Da qui la famosa "maledizione" di Inafune, espressione ovviamente folkloristica ma che identifica un momento di particolare difficoltà creativa per Capcom, che ha portato a decisioni criticate e prodotti non all'altezza delle aspettative. Tra questi episodi ricordiamo la cancellazione di Mega Man Legends 3, le polemiche sulla gestione dei DLC in Street Fighter X Tekken e una serie di cocenti delusioni a certificare il calo qualitativo di serie storiche, come Resident Evil 6 (rivelatosi comunque un notevole successo commerciale), Resident Evil: The Umbrella Chronicles, DmC Devil May Cry, Lost Planet 3, Breath of Fire 6. Ai problemi sul fronte tecnologico, dati da una certa anzianità degli strumenti di sviluppo come l'engine MT Framework e l'eventuale appoggio su soluzioni esterne non perfettamente implementate, si univa insomma un'evidente crisi di idee, con l'incapacità di rinvigorire le serie classiche con spunti interessanti o far partire nuove proprietà intellettuali con la giusta forza, sebbene anche in questo caso diverse idee fossero meritevoli come dimostrano Asura's Wrath o Dragon's Dogma.

Punto di rottura

Il definitivo punto di rottura, con conseguente svolta, può essere trovato intorno al 2016, quando una manciata di titoli ha certificato la crisi di Capcom agli occhi di critica e pubblico, determinando una sorta di reazione da parte della compagnia, anche se non è chiaro quanto questa risposta sia stata effettivamente studiata o semplicemente emersa per coincidenza. Il lancio di Street Fighter V ha rappresentato uno dei maggiori elementi di discussione in tale anno, con la polemica sulla gestione dei contenuti di partenza considerati eccessivamente esigui e una politica sui DLC che ha attirato grandi critiche, mentre Dead Rising 4 falliva in maniera netta i propri obiettivi sul mercato determinando il ridimensionamento della serie e Marvel vs Capcom: Infinite sanciva un altro tramonto illustre. A questo punto, forse più per una concatenazione di eventi che hanno portato a coincidenze che non per una vera e propria reazione ragionata da parte della compagnia, è iniziata la svolta.

Capcom: inferno e ritorno


Nel gennaio del 2017, Resident Evil 7 ha rivoluzionato la serie e l'ha riportata sotto i riflettori, sperimentando una nuova e genuina interpretazione del survival horror, con grande apprezzamento da parte della critica e dell'utenza, dopo l'estrema stanchezza dimostrata dal brand con il sesto capitolo. Un anno dopo, Monster Hunter: World ha rilanciato in tutto il mondo un franchise finora famoso soprattutto in Giappone, facendolo uscire dalla nicchia delle console portatili e dal mercato soprattutto locale per proiettarlo con enorme successo tra le produzioni tripla A di scala maggiore, diventando addirittura il gioco più venduto in assoluto nella storia di Capcom. Il 2019 si è aperto con la celebrazione del remake di Resident Evil 2, un progetto partito un po' in sordina e diventato infine una delle maggiori produzioni di quest'anno, rappresentando una sorta di sogno che si avvera per i numerosi appassionati della serie. Infine, arrivando a questi giorni, Devil May Cry 5 recupera il discorso lasciato in sospeso più di dieci anni fa, riportando sugli schermi l'azione straripante e ricca di spirito classico nipponico della serie originale.

Tutto parte dalla passione

Non è facile trovare un disegno preciso in questo rilancio generale di Capcom avvenuto negli ultimi due anni, ma possiamo scorgere degli elementi ricorrenti nei quattro progetti principali che stanno guidando la riscossa e fatto "tornare" il publisher, come riferito con entusiasmo dal CEO Urata. Prima di tutto sul fronte tecnologico: tutti i titoli in questione sono basati sul RE Engine proprietario, a dimostrazione di come la compagnia sia tornata all'utilizzo della tecnologia "fatta in casa" per avere la completa padronanza dei propri mezzi e i risultati positivi sono evidenti. Poi, sarà pure una banalizzazione, ma non possiamo fare a meno di notare come la passione di singoli o piccoli gruppi all'interno della compagnia sia stata la forza motrice comune a tutti i nuovi percorsi che hanno portato al successo. Koshi Nakanishi aveva dimostrato già una certa volontà di riportare la serie Resident Evil sui binari dell'horror più classico con Revelations e il fatto che gli sia stata affidata la direzione di Resident Evil 7 è stata una notevole dichiarazione d'intenti da parte di Capcom, che voleva evidentemente dare una svolta dopo la flessione qualitativa degli ultimi capitoli della serie regolare. L'esperienza di Masachika Kawata alla produzione ha ovviamente mantenuto tutto in sicurezza, ma è chiaro come l'intento fosse di provare a uscire dalla dinamica della serializzazione asettica con il settimo capitolo.

Resident Evil 2 1


Passione ed entusiasmo anche alla base del progetto Resident Evil 2, fortemente voluto dal producer Yoshiaki Hirabayashi, che presentò l'avvio dello sviluppo come una sorta di vittoria personale per aver ottenuto il via libera dalle alte sfere di Capcom su un'idea per la quale si era evidentemente speso parecchio in prima persona. Monster Hunter: World ha una storia simile, come abbiamo già detto in altre occasioni: si tratta di una sorta di scommessa da parte di Ryozo Tsujimoto, terzo figlio del fondatore di Capcom e personaggio rimasto piuttosto lontano dai riflettori, più dedito direttamente allo sviluppo videoludico vero e proprio. Anche in questo caso, il fatto che il progetto sia stato promosso da una persona impegnata in prima linea nello sviluppo ha consentito probabilmente un certo equilibrio tra la forza delle idee e il pragmatismo della conoscenza tecnica, consentendo all'azzardato disegno di portare un gioco rimasto sempre un po' di nicchia come Monster Hunter sulle console maggiori e soprattutto all'estero non solo di andare in porto ma di diventare addirittura un gioco da record per la compagnia. Si arriva così a Devil May Cry 5, che sembra completare il cerchio questa volta sotto la guida di un veterano come Hideaki Itsuno.