Se c'è una caratteristica unica che contraddistingue i videogiochi di Bethesda Softworks, quella è senza dubbio la capacità di dimostrarsi ogni volta molto più della somma delle singole parti. Paradossalmente, le opere dello studio faticano a raggiungere l'eccellenza in ciascuno degli elementi che le compongono: segmenti di gameplay e sistemi di combattimento molto indietro rispetto ai tempi, un comparto tecnico spesso deficitario, un'attenzione verso la grafica ridotta e una pletora di meccaniche da gioco di ruolo che - in seguito al tramonto di Oblivion - hanno vissuto una semplificazione ritenuta necessaria per raggiungere una maggiore fetta di pubblico. In breve, sezionandoli pezzo per pezzo è molto difficile arrivare a individuare il gene del successo, eppure la casa è riuscita a confezionare alcuni fra i più grandi capolavori nella storia del medium, e non si tratta del classico abuso del termine capolavoro.
Anche se Morrowind è sovente indicato come il magnum opus dello studio ed è un titolo la cui influenza ha letteralmente cambiato lo scorrere degli eventi, produzioni come Oblivion, Skyrim e Fallout 3 incarnano l'apoteosi della filosofia creativa di Todd Howard proprio per la straordinaria capacità di parlare a chiunque, mutando profondamente le sorti del gioco di ruolo all'occidentale e soprattutto mettendo nero su bianco - cosa che rappresenta più di una semplice rarità - l'ingrediente segreto alla base dell'efficacia della ricetta.
Il successo delle produzioni di Bethesda Softworks - con le sole eccezioni dell'immensità procedurale di Daggerfall e Arena - risiede solitamente nella costruzione di un mondo virtuale capace di offre al giocatore una vera e propria esistenza alternativa. Ciascun ingranaggio che si muove nel perseguimento di questo obiettivo rappresenta un pilastro di tali videogiochi: la scrittura di un sotto testo narrativo convincente, la collocazione in una cornice artistica ben definita, l'architettura di un'ambientazione organica e verosimile, la maturazione di fazioni coerenti, la conseguente nascita di un approccio di tipo esperienziale a un mondo di gioco che diventa come una seconda casa virtuale.
La dicitura "approccio esperienziale" è stata utilizzata dal nostro Alessandro Bacchetta nella sua recensione di The Legend of Zelda: Breath of the Wild: lui ne parlava in termini di "necessaria conoscenza dell'ambientazione oppure del territorio" per navigare il mondo aperto, ma a ben vedere si tratta di un concetto estendibile a dozzine di formule differenti. Nell'opera di Bethesda Softworks l'approccio esperienziale al mondo di gioco definisce la fattispecie che più di ogni altra si avvicina agli automatismi della nostra realtà: un'esplorazione del mondo aperto capace di trasformare l'enorme ambiente virtuale in un piccolo universo familiare e conosciuto. Dal canto suo, Starfield ha cambiato profondamente l'approccio all'esplorazione di Bethesda Softworks.
I mondi aperti di Bethesda Softworks: Skyrim
Skyrim trova il suo incipit nel villaggio di Helgen, luogo in cui il nostro eroe sta per essere giustiziato dalla Legione Imperiale perché catturato assieme al ribelle Ulfric Manto della Tempesta, poco prima che il drago Alduin intervenga a salvare baracca e burattini. Ciò che segue è una sequenza che traghetta dolcemente il giocatore fino all'insediamento di Riverwood, non solo ponendo come sottofondo musicale un ulteriore arricchimento della narrazione, ma soprattutto sfruttando la messa in scena organica dell'ambientazione per introdurre il giocatore alla vasta regione che imparerà a conoscere come fosse casa propria.
"Quello lassù è il Tumulo delle Cascate Tristi", dice l'accompagnatore del caso, indicando una destinazione a un tiro di schioppo che sarà inevitabilmente visitata dal protagonista. Nel seguente viaggio che conduce verso Whiterun - scandito da incontri come quello con i Compagni che anticipano spiragli d'avventura - avviene un primo contatto con le strade e il villaggio che assumeranno i connotati del quartiere che si vive tutti i giorni. Anche un mero negoziante come Belethor, a causa della dilatazione dei tempi digitali, dopo pochissime ore non è diverso dal barista dal quale prendiamo il caffè tutte le mattine, mentre quel masso su cui saliamo ogni volta che rientriamo in città non è un semplice masso, ma il masso alle porte del borgo di Whiterun.
Questo è l'approccio esperienziale di Skyrim, quello che riesce a mantenere intatta la sospensione dell'incredulità anche al cospetto delle peggiori assurdità generate da un motore vetusto come il Creation Engine, arrivando a esprimersi al massimo solamente quando si comincia a tastare il terreno dell'avventura. Un'avventura che, in questa regione, è integrata in maniera perfettamente organica nei confini del ciclo di gameplay: le missioni richiedono di attraversare fisicamente il mondo di gioco, risolvendosi in quelle dozzine di scoperte, di incontri casuali e di possibili deviazioni inaspettate che contribuiscono a cucire un'esperienza diversa su ciascun videogiocatore che si trovi ad affrontare lo stesso viaggio.
Inizialmente l'enorme vallata che si estende da Markarth fino a Riften è un territorio sconosciuto, ed è solo quando s'impara a conoscerla e addomesticarla che l'incantesimo inizia a prendere vita. C'è un istante in cui si comincia a dominarla, restando pur sempre liberi di deviare dal sentiero battuto per scoprire ancora una volta qualcosa di nuovo, bilanciando perfettamente il senso di familiarità e quello di meraviglia. Il pilastro centrale del design di Skyrim - e di tutte le opere di Bethesda incontrate fino a oggi - risiede nella costruzione di un mondo aperto nel quale ciascun viaggio dirama verso storie, conversazioni, oggetti e interazioni che sono al contempo motore e premio delle attività offerte, anche quando si torna nella "casa" che si è imparato a conoscere, riservando sempre all'ambientazione il ruolo da protagonista e relegando a mero contorno elementi che su altri lidi sarebbero essenziali, come il sistema di combattimento o l'interazione con l'ambiente.
L'esplorazione in Starfield
L'essenza stessa di Starfield rappresenta il tradimento di questa massima: la scelta di inseguire l'ambientazione nello spazio e la conseguente messa in scena di un migliaio di pianeti unici da scandagliare, deve inevitabilmente sacrificare ciò che fino a oggi ha rappresentato la pietra focale delle opere dello studio, ovvero l'esplorazione di un mondo organico e coeso. È un inevitabile compromesso che bisogna stringere quando si persegue una formula tanto ambiziosa: è fisiologicamente e tecnicamente impossibile che un universo così vasto e frammentato, privo di un overworld, caratterizzato dalla generazione procedurale e radicato in migliaia di pianeti, possa implementare la medesima ricetta intima che ha trainato al successo produzioni come Skyrim e Fallout 3. L'equilibrio fra la rarefazione del mondo aperto e la densità dei singoli punti d'interesse, in un mare di stelle, arriva a compimento in una maniera molto diversa.
I pilastri e il ciclo di gameplay alla base Starfield sono rimasti completamente invariati rispetto a quelli codificati dalla saga di The Elder Scrolls, e non è assolutamente un caso che Todd Howard abbia deciso di sponsorizzarlo come lo "Skyrim nello spazio". Non si tratta della classica frase di un venditore: Starfield è, a tutti gli effetti, Skyrim nello spazio - proprio come a suo tempo Fallout 3 fu un The Elder Scrolls post apocalittico - con l'unica, grande differenza che all'esplorazione del mondo aperto si è sostituita la navicella spaziale, un hub interattivo che traghetta il giocatore verso qualsiasi destinazione con la facilità di uno schiocco di dita. Se, nei capitoli di The Elder Scrolls, si parte sempre dall'esplorazione, poi si trova un'interazione, si torna all'esplorazione e infine si vive l'attività, in Starfield si comincia sempre da un'interazione, l'esplorazione è sostituita da un teletrasporto, mentre quest'ultimo conduce immediatamente alle porte della missione.
Provate per un istante a immaginare la missione principale di Skyrim senza mondo aperto, basata solamente sul viaggio rapido: Ralof di Riverwood vi manda a parlare con lo Jarl Balgruuf il Grande: con un teletrasporto si raggiunge subito Whiterun. Lo Jarl a quel punto vi invia dai Barbagrigia, e anziché effettuare l'intera scalata fino a Hrothgar Alto è sufficiente aprire la mappa e selezionare la destinazione; i Barbagrigia vi spediscono poi a recuperare il corno di Jurgen Windcaller: ancora una volta a separarvi dai cancelli di Ustengrav è solamente una rapida schermata di caricamento. La potenza delle singole sequenze rimarrebbe invariata, ma l'avventura e la scoperta del mondo ne uscirebbero inevitabilmente trasformate.
Questo è il marchingegno che di fatto regola le splendide missioni di Starfield, un immenso universo in cui ci si muove con precisione chirurgica. Al momento non è possibile esplorare lo spazio attivamente, decollando dal pianeta e muovendosi a velocità sub luce - spesso si dice che non avrebbe nemmeno senso poterlo fare - e anche qualora fosse possibile difficilmente le traversate nello spazio riuscirebbero a dar vita a ulteriori ramificazioni nel ciclo di gameplay, a far accadere qualcosa fra il punto di partenza e la destinazione come avvenuto dalle parti di Tamriel o nelle regioni postapocalittiche. Sono sempre le missioni a trovare il giocatore: è sufficiente passeggiare in città e origliare una conversazione pronta a incanalarlo nel binario prestabilito, conducendolo inevitabilmente dinanzi al punto d'arrivo.
Tale struttura genera inoltre un grosso effetto collaterale: la messa in evidenza della grande mole di caricamenti che tradizionalmente segnano le produzioni di Bethesda. In passato l'architettura era ben sezionata fra le lunghissime fasi nell'overworld e quelle all'interno dei dungeon, distinzione che nascondeva in maniera quasi impeccabile quello che ancora oggi rappresenta uno dei più grandi limiti del Creation Engine. Ora, dato che il mondo aperto non c'è più, il segmento dell'esplorazione di una vasta ambientazione è stato sostituito dai classici compartimenti stagni che da sempre caratterizzano il motore, anche quando si varca la soglia di un piccolissimo negozio; a ben vedere, la quantità di caricamenti non è diversa da un qualsiasi capitolo di The Elder Scrolls o di Fallout, ma la particolare struttura di Starfield li fa sembrare molti di più.
Addio regioni, benvenuta galassia
La verità è che l'ultimo lavoro di Bethesda Softworks non avrebbe potuto presentarsi in altro modo: nello stesso nome Starfield, che fa pensare a un infinito campo di stelle, si nasconde la volontà della casa di consegnare uno spicchio di galassia nelle mani dei giocatori, ed è forse per questa ragione che in molti si aspettavano un ruolo più attivo per la componente dell'esplorazione dello spazio, che l'atto di navigare fra le stelle avesse un maggior peso. La questione sta già venendo affrontata dai modder: anche se probabilmente la navigazione attiva aggiungerebbe poco alla rodata formula da gioco di ruolo della casa, sono in molti a essere rimasti scottati dall'assenza di tale possibilità. In Starfield l'esplorazione c'è, ma si presenta in una forma molto differente: quella delle circa mille superfici planetarie generate proceduralmente, nelle quali punti d'interesse predefiniti compaiono in maniera casuale attorno alla zona d'atterraggio, aprendo a lunghissime camminate sotto cieli sconosciuti. Questi punti d'interesse, tuttavia, finiscono per ripetersi molto rapidamente: si tratta infatti di circa 30 possibili strutture in totale, prive di missioni e di narrazione - proprio perché possono ripetersi - nonché vicine all'architettura ludica dei dungeon crawler tradizionali, dove affrontare nemici e accumulare equipaggiamento.
D'altra parte, è proprio in questo segmento che si nasconde il più grande punto di forza di Starfield: le superfici planetarie sono capaci di diventare il fondale perfetto per la costruzione di storie e scenari emergenti. Grazie all'apporto della fantasia, centinaia di migliaia di giocatori possono trasformare ciascuna passeggiata fra le rocce di un satellite in un'esperienza indimenticabile, "respirando" a pieni polmoni l'atmosfera dello spazio profondo, realizzando il sogno impossibile di calpestare il terreno di un altro corpo celeste. Quello che si riesce a fare armati della sola nave Frontier e della voglia di sognare non conosce paragoni, nemmeno nel contesto dei videogiochi nello spazio più affermati: come sempre, Bethesda è riuscita a racchiudere centinaia di vite alternative in un immenso scrigno virtuale. Ma ciò accadeva anche nelle passate produzioni dello studio, e se The Elder Scrolls VI dovesse integrare una nave pirata con la quale salpare verso l'orizzonte per visitare una serie di isole generate proceduralmente, è possibile che in molti la prenderebbero come una pesante sconfitta creativa.
Il futuro dei mondi di Bethesda
Starfield è una creatura molto particolare: se da una parte il modo in cui decide di mettere in scena il suo universo rappresenta una novità assoluta, dall'altra ricalca quasi alla perfezione la classica spina dorsale del gameplay codificata dalla casa, senza stravolgere nessuno dei sistemi e dimostrandosi quasi cieca di fronte all'evoluzione del genere RPG che ha seguito i suoi ultimi grandi successi. Il potenziamento della narrazione ha trasformato vicende come quella legata all'Avanguardia UC, o magari il grande dilemma della Flotta Rossa, oppure ancora le splendide missioni che concludono la trama principale dell'opera, in veri e propri film di fantascienza, conquistando vette che Bethesda Softworks non aveva mai lontanamente sfiorato. Ci sono momenti del racconto in cui ci si sente piacevolmente pieni, ci sono panorami capaci di lasciare a bocca aperta, ci sono persino attività che per qualche istante fanno sentire dalle parti di Arkane Studios, tratteggiando i contorni di una fra le più grandi avventure fra le stelle mai riversate in un videogioco.
Di contro, la classica esperienza di Bethesda pianta solitamente radici in un mondo che germoglia in modo organico attorno all'avventura del giocatore, poggiando sui pilastri dell'esplorazione, della scoperta, dell'assimilazione di ogni minima conoscenza accumulata, delle routine fisse di pochi NPC caratterizzati con il cesello. Un mondo che diventa come casa, nel quale i personaggi - per quanto statici - ai nostri occhi sembrano vivi, nel quale a un certo punto arriva il momento in cui ci si sposta come se ci si trovasse nel proprio quartiere, si fa un saluto al caro vecchio Belethor prima di decidere consapevolmente di virare verso una direzione ignota per ottenere qualcosa in cambio: a volte una storia originale, in altre occasioni il contesto perfetto per un'avventura emergente, in altre ancora un dungeon mai visto prima.
Qual è meglio fra le due strutture? Cosa bisogna sacrificare per inseguire l'innovazione e il progresso? Quella del prezzo da pagare è una tematica portante di Starfield, la più presente nei confini della missione principale: la necessità di compiere un pesante sacrificio per spingersi oltre i confini dell'ignoto e accarezzare una nuova frontiera. Starfield ha fatto proprio questo, scardinando le regole dei mondi del passato per inseguire un concetto di quantità ancor più impressionante, discostandosi dall'architettura della tradizione per consegnare nelle mani degli appassionati un universo sci-fi che al momento conosce pochi eguali. Ma riuscirà l'odissea spaziale, nonostante la distanza dall'antico incantesimo, a sopravvivere per una decade e a catturare gli appassionati per centinaia e centinaia di ore a distanza di mesi, proprio come Skyrim ha fatto prima di essa?