C'è un sentimento raro, nel mondo dei videogiochi, che vale più di mille trailer d'annuncio. È quella quieta soddisfazione che provi quando un gioco di cui sapevi poco, o da cui ti aspettavi il "solito", ti esplode tra le mani e ridefinisce le tue aspettative. È successo di recente, quando tutti abbiamo messo le mani su Clair Obscur: Expedition 33. Ricordiamocelo bene: non è stato il marketing a convincerci, ma il gioco finito. È stato quando abbiamo capito che no, non era "solo un altro JRPG a turni", ma un JRPG a turni fatto divinamente. Un'opera che ha preso un genere dato per stagnante, che l'industria cerca disperatamente di "svecchiare" contaminandolo con l'action, e ha deciso semplicemente di farlo perfettamente. Sandfall Interactive ha lucidato ogni singolo ingranaggio fino a creare un capolavoro di esecuzione.
Ecco, ho appena finito Dispatch. E l'ho provata di nuovo. Quella stessa, identica, elettrica sensazione. Dopo anni passati tra promesse e potenziali, siamo davanti al secondo indizio: Dispatch è come Clair Obscur, ma per le avventure narrative. È il gioco che nessuno si aspettava e che ha appena dimostrato che questo genere non era affatto morto. Era solo in attesa di qualcuno che avesse il coraggio di prenderlo sul serio.
L'industria ossessionata dall'ignoto che ha dimenticato il valore
Viviamo in un'epoca paradossale. L'industria videoludica è pervasa da una nevrosi, un'ansia da prestazione che la spinge a cercare "l'innovazione" a ogni costo, spesso confondendola con la semplice "novità". È la paura di annoiare, che però produce solo un rumore di fondo indistinto. In questa corsa folle verso l'ignoto, i generi "puri" sono visti come un problema, come una zavorra, lenti, vecchi.
E così assistiamo alla grande contaminazione: i JRPG devono avere meccaniche action per "svecchiarsi", gli strategici devono avere la telecamera in terza persona per essere più "cinematografici" e le avventure narrative... be', delle avventure narrative nessuno sa più cosa farsene. Le abbiamo viste trasformarsi in film interattivi passivi, diventare un simulatore di camminata, o incastrarsi nella formula Telltale, che da rivoluzione è diventata una gabbia dorata. Il risultato è un appiattimento desolante, dove nel tentativo di piacere a tutti si è perso il sapore specifico di ciò che rendeva un genere unico.
Ecco perché opere come Clair Obscur ci colpiscono così forte. E ora, ecco perché Dispatch fa lo stesso. Entrambi i giochi fanno una promessa coraggiosa: non reinventiamo la ruota, vi facciamo vedere perché ve ne eravate innamorati. Non cercano di essere altro da sé, cercano "solo" l'eccellenza esecutiva.
Dispatch: l'eredità Telltale è stata finalmente superata
Quando si è saputo che Adhoc Studio era formato da veterani Telltale, il timore era legittimo. Temevamo la formula, i QTE scriptati, la vecchiaia tecnica e, soprattutto, l'illusione della scelta. Quel famoso "Clementine will remember that" che, col tempo, aveva perso tutto il suo peso. Dispatch prende quell'eredità, la onora e la supera in un modo così netto da far sembrare The Walking Dead un prototipo di quindici anni fa.
La chiave di volta è la fusione di tre elementi che, giocati, si rivelano essere una cosa sola.
Il primo è l'estetica, quel meraviglioso stile da fumetto maturo che grida Invincible da ogni schermata. Ma non è solo una scelta artistica. Invincible - e parliamo sia del fumetto di Kirkman sia della serie Amazon - ha rivitalizzato il genere dei supereroi parlando di una cosa: conseguenze. Conseguenze brutali, sporche, emotive. La violenza non è pulita, le scelte non sono facili, gli eroi non sono perfetti (e prima che lo diciate, no, The Boys non rientra in questo, visto che parte già con un gruppo di persone che ha come obiettivo quello di disintegrare eroi malvagi, mentre in Invincible sono proprio gli eroi ad avere seri problemi). Dispatch sposa questa filosofia tematica in pieno. Non è un gioco dove si vince sempre; è un gioco sul fallimento, sul costo degli interventi, sulle cicatrici che la violenza lascia.
Questo tono cupo e maturo serve a giustificare il secondo elemento: la meccanica gestionale. Temevo fosse una gimmick, un minigioco slegato dalla narrazione. Mi sbagliavo, è il motore di tutto. Metterci nei panni di un dispatcher, di un "Oracle" con meno gadget e più responsabilità morali, è la vera genialata. La schermata della mappa, con le sue crisi multiple e le sue risorse limitate, non è un'interfaccia: è il fulcro dell'ansia.
È qui che Dispatch supera Telltale. Non c'è la scelta binaria "Salva A / Salva B". C'è il fallimento sistemico. Mandare l'eroe X a fermare una rapina significa consapevolmente lasciare che un incendio divampi dall'altra parte della città. E il gioco te lo fa pesare. Non con un filmato, ma con il report finale, con la chiamata disperata a cui non puoi rispondere, con un eroe che si porta dietro le ferite della tua scelta strategica. Non sentirai quindi solo di star vivendo una storia, ma ti renderai conto che stai cercando disperatamente di gestire il caos.
La consacrazione della performance: da Critical Role al cast intero
Infine, c'è il terzo elemento, che lega tutto: la performance. Un gioco che si basa così tanto sulle sfumature, sulla disperazione trasmessa via radio, sulla voce rotta di un eroe che ha visto troppo, crollerebbe senza una recitazione impeccabile. L'annuncio di Aaron Paul come protagonista e del cast di Critical Role - Laura Bailey, Travis Willingham, Matthew Mercer - non era una semplice mossa pubblicitaria, ma una necessità assoluta.
Averli nel cast è come quando un regista d'autore chiama i migliori attori del momento. Non sono solo "doppiatori", sono artisti che hanno costruito la loro carriera sulla credibilità emotiva. Sentirli in questo contesto è diverso: non interpretano eroi fantasy, ma persone sull'orlo di una crisi e non sono solo loro. L'intero cast, inclusi i ruoli di supporto come quello di Alanah Pearce, è diretto magistralmente. Ogni civile spaventato, ogni poliziotto stanco, suona vero.
Questa è la stessa cura che Sandfall ha messo nella colonna sonora di Clair Obscur (e anche in Dispatch la colonna sonora, complici alcune canzoni davvero adatte, non è per niente male). La musica non viene trattata come un "extra", ma si rivela parte integrante dell'esperienza. È la prova che Adhoc ha preso la recitazione sul serio tanto quanto il gameplay. Tutto questo funziona anche e soprattutto per la qualità dei dialoghi: come nel gioco di Sandfall Interactive, anche qui abbiamo dei momenti in cui quello che viene detto dai personaggi risulta vero, coerente, funziona alle nostre orecchie e ci porta a dimenticare che tutto questo è un mucchio di poligoni a schermo.
L'eccellenza è la vera innovazione, e Dispatch ne è la prova
Alla fine, Dispatch ci lascia con la stessa sensazione di Clair Obscur: non abbiamo bisogno di inventare un nuovo genere ogni sei mesi, ma di riscoprire il valore di quelli che abbiamo.
Dispatch ci ha dimostrato che le avventure narrative non sono morte, che non sono un genere "minore" buono solo per la nostalgia. Hanno solo bisogno di qualcuno che le prenda sul serio, qualcuno che abbia il coraggio di non stravolgerle, ma di prendere la loro anima fatta di narrazione, scelte e conseguenza, e costruirci sopra un'esperienza impeccabile, matura e coraggiosa. Dispatch non ha inventato l'ignoto. Ha "solo" preso un genere che amavamo, lo ha fuso con meccaniche intelligenti e lo ha eseguito con una qualità sbalorditiva. Ci ha ricordato che, molto spesso, la vera innovazione è, semplicemente, l'eccellenza.