A quanto pare Hideo Kojima ha ancora voglia di provarci con Death Stranding.
La mia generazione deve molto al cinema. Tanto di ciò che abbiamo visto influenza inconsciamente ciò che facciamo oggi. Mi piace chiamarlo il nostro "DNA cinematografico". (ridacchia) Essendo cresciuto guardando i film non importa cosa io faccia, perché quel DNA mi influenzerà e darà alle mie opere una forma 'cinematica', così come l'arte di coloro che sono cresciuti nella 'generazione manga' mostrerà sempre tracce di manga. Una delle cose che mi fa più paura di oggi è che i giovani autori di videogiochi sono cresciuti soltanto con i videogiochi e non so se abbiano avuto il tempo e il modo di assorbire l'influsso delle altre arti e degli altri media.
Nel mio caso quando creo non miro consciamente a ottenere qualcosa di cinematografico, ma è più il risultato di essere cresciuto con il cinema che fa somigliare tutto a un film. È ciò che ho assorbito nell'inconscio: il senso di ciò che è 'cool', delle belle inquadrature, dello stile fotografico... tutto mi influenza in un modo o in un altro. Una singola opera è il frutto di molti legami inconsci.
da Yasumi Matsuno x Hideo Kojima - 1999 GSLA interview archive
Chi scrive non è un grandissimo fan di Hideo Kojima, pur avendo giocato alla maggior parte dei titoli che portano la sua firma, inclusi quelli dell'era pre-Metal Gear Solid. Tranquilli, perché non siamo in cerca di medaglie al valore facendo gli alternativi, ma vogliamo sgombrare il campo dall'ombra di possibili fraintendimenti per quello che andrete a leggere.
Veniamo a Death Stranding. Dopo i frammentati materiali mostrati alla Gamescom 2019, molti stanno sollevando dei dubbi sul gioco che sono più che legittimi: come sarà? Innoverà come promesso? Inventerà un genere? Ci renderà tutti più fertili? Difficile dirlo con quanto visto finora e francamente non è nemmeno un argomento così interessante come alcuni vorrebbero che sia. Si tratta di dubbi da potenziale acquirente, ossia da una sottospecie di essere umano che si pone in relazione con il medium solo in termini di dare/avere. Molti videogiocatori sembrano più dei ragionieri (detto da un ragioniere ndr) alla perenne ricerca di far tornare i conti in partita doppia, che degli appassionati curiosi di vedere fino a che punto il medium videoludico si possa spingere. Ovviamente il discorso economico è importantissimo a livello individuale (ognuno conosce le sue disponibilità), ma ridurre l'intero dibattito sui videogiochi ai termini di 'spendo la somma X per avere tempo di gioco Y con una prospettiva di incremento dello stesso pari a +/-Z' è di una sterilità disarmante. Eppure negli ultimi anni l'intera industria tripla A sembra ruotare intorno all'esigenza di occupare il più possibile il tempo dei videogiocatori per farli sentire appagati dei soldi spesi e per vendergli cianfrusaglie virtuali nel tempo extra che dedicano al gioco, tanto che ha assunto sempre più importanza il concetto anale, detto in termini psicanalitici, di 'endgame', lì dove il valore percepito è tanto maggiore quanto più il gioco mi tratterrà, occupando il mio tempo con attività supplementari spesso di una povertà esperienziale disarmante.
I nuovi modelli economici intorno ai quali sono concepiti i videogiochi tripla A moderni hanno prodotto un conformismo impressionante, quasi terrorizzante. La sperimentazione è stata definitivamente ghettizzata e ora si trova quasi soltanto nella scena indipendente (e in qualche produzione doppia A), scena da cui le produzioni maggiori rubano a piene mani quando fiutano la possibilità di fare soldi (il caso più recente è quello degli auto battler, ma pensate anche ai battle royale e ai MoBA). Questa situazione si riflette pesantemente anche nell'immaginario collettivo del medium, mai così piatto e statico. Pensate soltanto a quanti personaggi iconici sono nati dai videogiochi tra la fine degli anni '70 e la metà della scorsa generazione (Xbox 360/PS3) e confrontate il numero ottenuto con quello dei personaggi nati con l'ultima generazione. La verità è che in epoca PS4/Xbox One l'industria tripla A ha investito moltissimo sugli standard qualitativi, ancora di più sulla monetizzazione selvaggia, ma ha fatto pochissimo per ampliare l'immaginario del medium che, a parte poche eccezioni, appare fermo allo scorso decennio. Anzi è sostanzialmente regredito.
In un quadro così desolante Death Stranding è, a prescindere dalla rivoluzionarietà o meno delle sue meccaniche, una buona novella e lo è perché almeno sembra voler provare a proporre qualcosa di diverso. I trailer visti finora possono anche non aver detto molto sul gioco in sé, ma ci hanno raccontato comunque qualcosa di importante, ossia che Kojima e i suoi hanno lavorato per creare un immaginario completamente nuovo, che trascende dai concetti da manuale di scrittura creativa che vengono ormai applicati con annoiata professionalità a ogni singolo videogioco. Insomma, al di là di tutto è un'opera che vale la pena aspettare perché si offre come un manufatto da decifrare e che mira a coinvolgerci nella sua alterità, invece di accontentarsi di farci passare un po' di tempo. Non è poco.