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Death Stranding, il suo problema è Death Stranding

Visto il nuovo trailer di Death Stranding, viene da fare un'amara riflessione su come ci si trovi di fronte a un caso praticamente unico nel mondo dei tripla A.

NOTIZIA di Simone Tagliaferri   —   30/10/2019

Il problema di Death Stranding è Death Stranding. L'affermazione può sembrare paradossale, ma non lo è. Sinceramente chi scrive non se la sente di dare un giudizio qualitativo sul gioco di Hideo Kojima basandosi su dei filmati, ma guardando tutto il materiale mostrato finora è invece possibile dare un giudizio di massima sulla direzione artistica, che non ha eguali in ambito tripla A, almeno per tutta l'ultima generazione. È proprio qui che Death Stranding mette in crisi se stesso, in modo metaforico: qualcuno direbbe che è unico, la verità, decisamente più amara, è che è solo e sembra rappresentare un modo di concepire i videogiochi che l'industria maggiore ha letteralmente abbandonato, lasciando il concetto di videogiochi come esperienze a produzioni doppia A o agli indipendenti.

Di fatto Death Stranding è un gioco alieno per come è stato concepito e sviluppato: è l'unico tripla A di questa generazione, o quantomeno uno dei pochissimi, ad avere ambizioni espressive oltre che commerciali. Sostanzialmente Kojima è l'unico ad aver ricevuto soldi per fare il suo gioco, ossia per poter realizzare qualcosa che abbia un'impronta autoriale forte e riconoscibile. Forse solo The Last of Us 2 ha una visione altrettanto marcata (tutta da verificare) e non a caso uscirà anch'esso a fine generazione. Se vogliamo possiamo aggiungere The Witcher 3 per compiutezza narrativa, ma complessivamente cambia poco: l'epoca PS4/Xbox One ha visto l'abbandono quasi totale di una concezione dei videogiochi che ci portavamo avanti dai tempi in cui nacque il concetto di autorialità nei videogiochi, con personaggi quali Richard Garriott, Mel Croucher, Matthew Smith e altri i quali, pur in generi diversi, hanno provato a spostare in avanti l'asticella del medium videoludico inteso come nuovo linguaggio, asticella che è stata quasi ferma negli ultimi anni, durante quella che possiamo definire la generazione Tommyknocker dell'industria, in cui tutti gli standard sono stati migliorati ma non è stato inventato niente di nuovo e, anzi, c'è stata una regressione netta in termini di concezione dell'esperienza complessiva offerta al giocatore.

Ribadiamo che stiamo parlando dell'ambito dei tripla A e non del mondo dei videogiochi nel suo complesso, dove la sperimentazione non è mancata, al punto che i grandi publisher si sono più volte dati al furto di idee verso il basso per produrre i loro blockbuster (pensate a Fortnite...).

Insomma, ben venga Death Stranding, ma il pericolo è che sia un caso unico e che per vedere un'altra produzione del genere dedicata non al solito sparatutto asfittico o all'ennesimo action involuto occorra attendere il prossimo gioco di Kojima, come se l'industria abbia prodotto negli anni un solo autore degno di essere finanziato.

Del resto la colpa è anche dei giocatori e dei loro acquisti, che premiano quasi sempre le scelte più facili e che non si pongono quasi mai come paletti di fronte a certe derive (basti pensare alle microtransazioni). Ma questa, come si suol dire, è un'altra storia.