Si dice che si hanno a disposizione circa otto secondi per catturare l'attenzione di una persona. In questo preciso momento, la maggior parte degli utenti avranno già deciso se vale o meno la pena di leggere questo articolo. La stessa identica cosa succede nei confini dei videogiochi e, pur essendo un argomento a cui non si dedica mai troppa attenzione, ciò che accade una volta che si preme il pulsante Start svolge un ruolo determinante nella percezione che formiamo di un'opera. È il biglietto da visita, una sequenza che dovrebbe rappresentare una piccola finestra su un mondo nel quale investire una decina, a volte anche un centinaio delle ore del proprio tempo. Ed è evidente che nel mercato odierno nulla abbia più importanza delle prime impressioni.
In Atomic Heart, indossati i panni del Maggiore Nechayev, ci si trova catapultati nella città volante di Chelomey, muovendo i primi passi nella festa di suoni e colori che anima l'ucronia sovietica eretta da Mundfish. Un'introduzione coraggiosa e conservativa al tempo stesso: coraggiosa perché mettere in piedi una sequenza di oltre mezz'ora nella quale a malapena si tocca il gamepad è una scelta estremamente rischiosa, conservativa perché è inevitabile notare le tantissime similitudini che esistono fra la presentazione di Chelomey e quella della Columbia protagonista di BioShock: Infinite.
È facilissimo commettere errori: Far Cry 2, ad esempio, si apriva con un filmato introduttivo di soli dieci minuti che era già di per sé sufficiente a smorzare l'atmosfera e che è spesso ricordato dagli appassionati come un evidente scivolone. Ma Atomic Heart ha avuto molta più fortuna, al punto da spingere chiunque sia rimasto stregato dai primi battiti dell'avventura a questionare la media di valutazione dell'opera, avendo assaggiato un primo boccone tanto ricco quanto saporito. Del resto la resa della parata in occasione del lancio del Kollektiv 2.0 lascia ben poco spazio all'immaginazione, e la direzione artistica è senza ombra di dubbio la punta di diamante della produzione di Mundfish.
L'introduzione di Atomic Heart è una delle più suggestive emerse in epoca recente, e forse il suo unico difetto risiede proprio nell'aver condensato la maggior parte della magia che si troverà nel resto dell'offerta in una manciata di minuti, offrendo una deliziosa entrée da ristorante stellato che rischia di alzare tropo l'asticella rispetto alla comunque gustosa cena nel suo insieme. Allargando l'obiettivo, il modo in cui i videogiochi scelgono di presentarsi ha un peso enorme, e la storia del medium è costellata di esempi virtuosi.
Benvenuti in Atomic Heart
Un'imbarcazione robotica fende le acque di un canale, mentre stormi di droni si mischiano agli uccelli nei cieli azzurri del complesso Chelomey; gli angoli delle strade sono colorati da televisori squisitamente anni '50, mentre tutt'attorno si innalzano palazzi simbolo del classicismo socialista, per l'occasione cinti di palloncini che brillano dei colori dell'Unione. È così che si apre Atomic Heart, srotolando una scenica sequenza che presenta al giocatore tutte le meraviglie dell'ucronia di Mundfish, mescolando passato e futuro sotto imperiose statue che impugnano falce e martello. Poi arriva una comunicazione radio, anch'essa veicolata da un robot, e l'agente P-3 - il protagonista dell'opera - si confronta per la prima volta con Dmitri Sechenov, l'incredibile mente che si cela dietro le vittorie sovietiche, un personaggio che monta sul palcoscenico trasmettendo vibrazioni degne dell'Atlas di BioShock: una "voce nella testa" che sembra tirare i fili tesi dietro ciascun gesto del maggiore.
Prima che la missione abbia inizio, tuttavia, c'è occasione per muoversi liberamente fra gli stand della fiera che accompagna la parata: il lancio del Kollektiv 2.0 - una rete neurale capace di azzerare le distanze tra uomo e macchina - è ormai dietro l'angolo, e la città di Cheolmey, il cui nome è probabilmente dedicato all'ingegnere missilistico Vladimir Chelomey, si trasforma in un colorato teatro volenteroso di acclimatare i giocatori all'universo narrativo. I richiami alla Columbia di BioShock Infinite sono evidenti, e passeggiando per i viali alberati è possibile interagire con diverse inconsapevoli guide, mentre in sottofondo si odono dozzine di dialoghi contestuali. Un giovane ricercatore spiega i misteri del Dispositivo Pensiero, lo strumento necessario per interfacciarsi con il Kollektiv 2.0, dipanando parte della nebbia che avvolge il mondo di gioco. Per spazzarla via definitivamente interviene una robot Tereshkova - il cui nome è a sua volta ispirato all'astronauta russa Valentina Tereškova, la prima donna nello spazio - pronta a ragguagliare il protagonista sulla storia alternativa che sorregge il progetto, raccontandogli le ultime notizie dal mondo come una strillona dei primi del '900. In questa fase di gioco la curiosità è sempre ricompensata per mezzo di brevi sequenze animate - ad esempio quella in cui è possibile ricevere un gustoso gelato dall'apposito androide - e diverse opportunità di dialogo non segnalate, su tutte quella che apre al racconto dell'approccio all'esplorazione dello spazio.
Poi, chi sceglierà di deviare ancor di più dal percorso principale, s'imbatterà in un monumento che celebra tutti i più grandi trionfi dell'Unione sotto Sechenov: mentre un baffuto robot VOVA stende al pianoforte il tappeto musicale, è possibile riempirsi gli occhi con i momenti chiave della straordinaria evoluzione scientifica. Tutto ha avuto inizio con la scoperta del Polimero, che assieme alla fusione dell'idrogeno ha gettato le fondamenta di una schiacciante vittoria nella Seconda Guerra Mondiale, traghettando la cultura sovietica in vetta al panorama internazionale e inaugurando un'età dell'oro per la robotica e per la ricerca. Ciascuna sequenza è pregna di dettagli: capita di scorgere veterani decorati che visitano i monumenti accompagnati da servizievoli VOVA, d'imbattersi in manifesti della propaganda ciascuno tradotto per l'occasione, di udire discussioni tra NPC che sviscerano strati della costruzione del mondo. È facilissimo restare ammaliati da Chelomey, e diventa ancor più facile quando si sceglie che è giunta l'ora di seguire l'indicatore presente sullo schermo.
Dopo che una gioiosa e affabile Tereshkova introduce il maggiore alle meraviglie del Polimero, guidandolo con la grazia di un'assistente di volo attraverso l'intero procedimento di utilizzo, si sbatte il muso con un primo centro di collaudo, ennesimo luogo in cui si rischia di finire assorbiti dalla cura riservata all'ambientazione. Macchinari che sembrano usciti dal Westworld di Jonathan Nolan e Lisa Joy assemblano con cura i telai degli androidi, mentre le fasi test li spostano sui tapis-roulant, sotto la stretta sorveglianza di robot VOVA che in quanto tali non necessitano di sedie e se ne stanno placidi in posizione di "wall-sit". Una volta all'esterno, ci si trova al cospetto di un'immensa parata su cui torreggia l'effigie olografica di Sechenov, più che mai orgoglioso di accogliere i suoi compagni in una nuova epoca per il genere umano attraverso un discorso degno del miglior Padre Comstock.
È allora che si varcano i confini dell'edificio centrale di Chelomey, raggiungendo un atrio presidiato dai fari che illuminano il cammino dell'Unione: scienza, medicina, agricoltura e guerra. Nella migliore delle tradizioni dell'ispirazione immersive sim - come già accaduto tanto sui fondali BioShock quanto in quelli di Prey - non s'incontrerà mai il proprio Virgilio: Sechenov è troppo impegnato e per accogliere il protagonista interverranno le sue guardie del corpo, le cosiddette "ballerine", una coppia di splendidi androidi da guerra che si sono rapidamente trasformati nel simbolo stesso di Atomic Heart, grazie al design al tempo stesso ammaliante e disturbante. Sono loro a indirizzare il maggiore verso il complesso 3826, il vero teatro su cui andrà in scena la rappresentazione pensata da Mundfish, un mondo aperto che si rivelerà decisamente più bello da vedere di quanto sia effettivamente profondo.
L'introduzione, ormai durata circa mezz'ora, si chiude infatti attraverso un'ultima importantissima fase: a bordo di una vecchia ed elegante Turbine, il maggiore viene arpionato da un drone volante "Bombo" che tutto a un tratto allarga l'obiettivo sull'intera Chelomey, mostrando la magnificenza della piattaforma fluttuante che ospita la città, avvicinando ancor di più l'amalgama alla costruzione scenografica di Columbia. Poi, squarciata la coltre di nubi, finalmente il complesso 3826 fa il suo ingresso in scena, abbracciato da ferrovie a levitazione magnetica e centri di ricerca impossibili, serre fantascientifiche e splendenti laboratori di un bianco perlaceo. Ma qualcosa va storto: un robot impazzito attacca il trasporto del maggiore, facendolo precipitare nel cuore del complesso; un'altra amichevole Tereshkova lo ragguaglia sulla situazione prima di trasformarsi in un cumulo di detriti, mentre Nechayev è vittima di un ultimo rovinoso schianto. Lo schermo si fa improvvisamente nero, poco prima di accogliere le parole Atomic Heart: a trentaquattro minuti dall'avvio dell'opera, l'introduzione - che racchiude l'anima stessa del progetto di Mundfish - lascia spazio al gameplay, consegnando il mondo nelle mani del giocatore.
Le migliori introduzioni dei videogiochi
A volte si tende a dimenticare quanto sia importante l'introduzione per il successo di un videogioco. Esistono titoli che riescono a catturare l'attenzione in un battito di ciglia, come ne esistono tanti altri che rischiano di sfociare rapidamente nella noia. Trattando Atomic Heart non si può non fare riferimento alle lezioni impartite da BioShock Infinite, che nell'arco di una manciata di minuti riusciva a calare perfettamente il giocatore nella sua atmosfera onirica, mettendolo di fronte ai misteriosi gemelli Lutece, facendogli vivere i panorami della città volante, proiettando l'imponente ombra di Padre Comstock e sguinzagliando Booker DeWitt in una fiera che custodiva tutte le meraviglie dell'ambientazione. La grande differenza rispetto ad Atomic Heart è che l'introduzione dell'opera di Ken Levine non lesinava sulla componente narrativa, impiantando i tanti piccoli semi destinati a germogliare in un racconto scioccante, in un universo in cui anche il più piccolo dei dettagli aveva un significato ben preciso. Del resto l'opera raccolse l'eredità dell'originale BioShock, sostenuto da uno fra i migliori incipit mai incontrati nella storia del medium.
Una sequenza d'apertura che a suo tempo s'impose come uno standard è senza dubbio quella di Half-Life, che optava per una formula sospesa a metà fra narrativa e interazione, scardinando gran parte dei preconcetti legati all'architettura dello sparatutto in prima persona. I primi passi mossi da Gordon Freeman nei meandri di Black Mesa sono diventati un simbolo di ciò che il giocatore dovrebbe trovarsi di fronte nei confini di un'esperienza votata all'immersione, e la catastrofe che investiva il complesso non poteva restituire una resa più dettagliata; è lì che risiedono le fondamenta delle moderne esperienze d'azione, volenterose di raccontare una storia attraverso la sola potenza delle immagini senza abbandonare il motore di gioco in favore di sequenze prerenderizzate. Restando nell'orbita di Valve, anche Portal 2 è stato in grado di fare scuola attraverso una sequenza di cinque minuti che riusciva al contempo a caratterizzare il mondo di gioco e spiegarne le meccaniche, scolpendo nella pietra una serie di assiomi ancora ravvisabili ad esempio nel Prey secondo Arkane Studios.
Di tutt'altra natura, invece, è la strada imboccata da Hideo Kojima con il suo Metal Gear Solid, un sentiero che si stringeva attorno alla figura di Solid Snake adottando un approccio cinematografico, volenteroso di far trasparire fin dalle inquadrature l'essenza tipica della grande produzione hollywodiana, trasformando l'incipit del videogioco nella più classica delle controparti cinematografiche. Una formula, questa, che si è evoluta assieme al brand con Metal Gear Solid 2 e poi con il terzo episodio tridimensionale, costruendo vere e proprie missioni introduttive destinate a sfociare nei titoli di testa, quasi a voler ricordare le pellicole dedicate a James Bond. Una deriva, questa, che è stata abbracciata da produzioni legate ad ogni tipo di genere e che ha attraversato tutte le ere dei videogiochi: basti pensare alla famosa "Bombing Mission" che alzava il sipario sulla componente narrativa di Final Fantasy VII catapultando il giocatore nel cuore di un attentato terroristico, o più di recente all'apertura di God of War del 2018, che non esitava a spezzare la distesa atmosfera del tutorial attraverso il pirotecnico scontro con il misterioso straniero.
Ci sono studi di sviluppo che, per stessa ammissione degli autori, dedicano mesi di lavoro alla costruzione dell'introduzione, e Bethesda Softworks è uno di quelli. L'intera fase all'interno delle mura del Vault 76 di Fallout 3, così come il brusco risveglio sull'immortale diligenza diretta a Helgen in Skyrim, sono il frutto di costanti discussioni volte ad offrire il miglior spaccato possibile dell'universo narrativo. La casa ha sempre sfruttato interazioni asciutte per condensare migliaia di informazioni in pochi minuti, prima di selezionare con cura il punto migliore per far riemergere il giocatore nei confini del mondo aperto. Di interpretazioni fuori di testa ne abbiamo incontrate a dozzine, dalla fase squisitamente shoot'em up che apre le danze di Nier: Automata, scagliando gli androidi 2B e 9S nel vivo dell'azione, fino a soluzioni emotivamente più cariche, come la finestra narrativa spalancata da The Last of Us, sapientemente ricreata nel contesto della serie televisiva, capace di suggellare in pochi istanti il legame tra spettatore e protagonisti.
Il peso delle prime impressioni
L'introduzione è ciò che spesso crea o distrugge un videogioco, specialmente al giorno d'oggi, nell'epoca del binge gaming e dei servizi in abbonamento, delle nuove modalità di fruizione che portano a testare un'esperienza dietro l'altra cestinando quelle che mancano di catturare l'attenzione. In tempi non sospetti, persino Shigeru Miyamoto ha dedicato delle analisi all'importanza del primo confronto, descrivendo il livello 1-1 del suo Super Mario Bros come l'epitome di ciò che un giocatore dovrebbe trovarsi davanti avviando un videogioco, riuscendo a comprendere tutto ciò che serve nell'arco di pochi attimi. Esistono infatti produzioni che hanno risentito della struttura dell'incipit, da quelli che hanno scelto di erigere solide barriere meccaniche - su tutti Driver con il suo ben noto tutorial - fino a quelli che non sono riusciti a caratterizzare efficacemente il proprio mondo, come nel caso del succitato Far Cry 2 e della sua lenta e statica introduzione.
Mundfish, con Atomic Heart, ha pescato ispirazione dai grandi del genere per assemblare una sequenza introduttiva studiata al millimetro, pregna di tutto il grado di cura artigianale e dell'attenzione al dettaglio che mancano alle fasi inoltrate dell'avventura. In questo senso l'introduzione del videogioco può trasformarsi anche in un'arma a doppio taglio, al punto da assumere connotati indistinguibili da quelli del vertical slice, portando l'asticella della qualità a toccare estremi difficilmente eguagliabili dal prodotto nel suo insieme. Al tempo stesso, se Atomic Heart è riuscito a far breccia nel cuore dei videogiocatori, è anche e soprattutto grazie allo straordinario peso del segmento d'apertura, che ha imbrigliato tutta la magia della direzione artistica in un piccolo scrigno interattivo.