"Quella donna merita la sua vendetta, e noi meritiamo di morire." Mentre guardavo il trailer di Ghost of Yotei, continuavo a risentire la frase di Michael Madsen (riposa in pace, ndr), che con lo sguardo tra le montagne del deserto, senza neppure guardarci negli occhi, riassumeva in un modo impeccabile lo spirito di Kill Bill. Tutto in Ghost of Yōtei profuma di Kill Bill: dalla vendetta mascherata al vento che ulula e una katana sguainata. Ma se siete scettici a tal proposito e orfani di fiducia e di tarantiniana bellezza, soffermatevi e guardiamo insieme questa storia. La storia di una donna che ha perso tutto, anche la vita, e lì tra le ceneri della furia, decide che se sopravviverà, dedicherà la sua vita alla vendetta, armata del più fine acciaio che mano umana abbia mai modellato.
Questa è tanto Uma Thurman quanto Atsu, una ragazza solitaria che incarna lo spirito del "fantasma vendicatore". Ogni frame, ogni taglio, ogni nota musicale di Ghost of Yōtei sembra evocare l'icona del cinema moderno, scomponendola, reinterpretandola e trasformandola in linguaggio videoludico puro.
Una sinfonia di vendetta, una danza di sangue e memoria, dove ogni lama affonda nel cuore dell'immaginario cinematografico e lo restituisce sotto forma di gioco. Come si può capire questo però dal trailer?
Vendetta scritta nel sangue: la lista, la lama, la memoria
Ghost of Yōtei, sviluppato da Sucker Punch Productions per PlayStation 5, è l'atteso successore spirituale di Ghost of Tsushima. Ambientato nel 1603, nelle terre selvagge intorno al Monte Yōtei (l'antica Ezo, oggi Hokkaido), il gioco ci mette nei panni di Atsu, una ragazza che incarna uno spirito vendicativo chiamato onryō. Il suo obiettivo è uccidere i membri del crudele clan dei Sei Yōtei, responsabili dell'uccisione della sua famiglia.
Sin dal primo trailer di Ghost of Yōtei, pubblicato l'anno scorso, ciò che abbiamo conosciuto di Atsu è la sua figura implacabile che, come un lupo, insegue la sua vittima finché non la abbatte. La tavolozza cromatica passa dal bianco e nero al dettaglio del rosso, i paesaggi immensi non sono il centro dell'attenzione, è il sangue che colora la storia: quella macchia di sangue, che già ricorda una celebre spennellata dedicata alla vendetta, viene spezzata da pennellate di giallo intenso e nero pece, dettagli del suo abbigliamento e della maschera crepata.
Dove abbiamo già visto questa precisa combinazione di colori in un'altra trama dedicata alla vendetta? Dove, se non l'iconografico giubbotto giallo indossato da Uma Thurman in Kill Bill? Un evidente tributo cromatico che Tarantino adottò, a sua volta influenzato dal leggendario Bruce Lee. Anche le inquadrature esaltano la similitudine: close-up sui volti, fermo immagine sul sangue e camera che indugia sulle spade impugnate, come se fosse una scena preparata per una "revenge match" al femminile.
Graficamente rivoluzionario e carico di misticismo, appare evidente come Sucker Punch abbia voluto richiamare il cinema pulp-action giapponese reinterpretato da Tarantino, trasformando il gioco in un'esperienza visiva narrativamente potente. Il confronto più palese con Kill Bill arriva ancora di più dal gesto rituale di Atsu che pulisce la lama sul braccio, dove una lista di nomi è cancellata una ad uno con sangue fresco - un chiaro riferimento alle "lista di nomi da cancellare" della Sposa. Si tratta di una citazione visiva forte, dove il coltello non è solo un'arma, ma uno strumento di catarsi, memoria e rito.
Ogni nome è inciso nella carne: così come la spada di Beatrix porta via il passato uno per uno, anche Atsu elimina simbolicamente chi ha contribuito alla sua sofferenza. Ed è dentro questo atto rituale che Ghost of Yōtei riecheggia il melodramma pulp di Tarantino, fondendo il gioco in un "film interattivo" sul tema della vendetta, dove la lama è veicolo estetico ed esistenziale.
La narrativa della vendetta: struttura e simbolismo
In Kill Bill, la vendetta è strutturata in cinque capitoli, ciascuno scandito da un nome da cancellare. In Ghost of Yōtei, questa struttura si espande e si plasma sul folklore giapponese: sei bersagli, i "Sei di Yōtei", rappresentati da figure archetipiche (Oni, Kitsune, Serpente, Ragno, Drago e il Lord). Se nel film di Tarantino tutti gli assassini che La Sposa voleva uccidere avevano nomi in codice dedicate a specie di serpenti, nel gioco ogni personaggio incarna a sua volta un elemento legato allo stesso modo al tema della vendetta ma in chiave giapponese: la Kitsune è spesso uno yokai infido e ingannevole, così come il Ragno è il fine intessitore di bugie e di piani ben congegnati. Ogni avversario di Atsu incarna uno spirito malevolo, un avversario temibile e legato a storie di sangue e vendette.
Ogni elemento in Ghost of Yōtei, sin da questi piccoli elementi del trailer, è costruito con questo richiamo quasi maniacale. La maschera di Atsu, spezzata e ricomposta con oro in stile kintsugi, è metafora perfetta della frattura interiore e della ricostruzione personale. Il lupo, secondo la cultura giapponese, richiama un simbolismo ancestrale: la natura indomabile, la caccia, la guida, il collegamento tra la legge divina e la legge degli uomini. Anche questo dettaglio non è casuale: come La Sposa affronta i suoi fantasmi interiori seguendo il suo codice morale, così Atsu deve attraversare un percorso spirituale, più che fisico.
La regia sfrutta ogni contrasto - tra silenzio e musica, lentezza e frenesia, col sangue come inchiostro e la spada come pennello - per elevare il linguaggio videoludico a vera grammatica cinematografica.
Montaggio, ritmo e musica: il Giappone di una volta
Sucker Punch ha deciso di andare oltre il semplice omaggio a Kill Bill, studiando lo stesso materiale che ha ispirato Tarantino per la sua opera e aggiungendo così il suo tocco di cinema giapponese al gioco. Come visto anche nel recente State of Play, sarà possibile giocare sotto la lente del Kurosawa Mode, ossia in bianco e nero proprio ricalcando lo stile del regista nipponico, con grana e traccia audio originale giapponese, un omaggio evidente a I Sette Samurai e alla regia teatrale di Akira Kurosawa: inquadrature geometriche, silenzi eloquenti, duelli coreografati come danze lente. Al contrario, il Miike Mode - ispirato a Takashi Miike (celebre ad esempio per il film 13 Assassini) - esplode in sangue e violenza frontale: primi piani disturbanti, schizzi di sangue che sporcano l'obiettivo, suoni amplificati al limite del grottesco.
Queste due modalità non sono meri filtri grafici, ma veri strumenti registici, pensati per offrire esperienze emotive differenti: contemplativa e drammatica in Kurosawa, brutale e istintiva in Miike. Proprio come Kill Bill alternava cartoni animati, bianco e nero, e flashback intensi per veicolare stati d'animo.
Anche la musica, firmata da Toma Otowa, si fa colonna vertebrale della messa in scena. Shamisen, taiko, archi e chitarre elettriche compongono un mosaico sonoro che richiama le partiture ibride di Kill Bill, dove Morricone, il surf rock e le melodie da spaghetti western scandivano il ritmo della vendetta. Allo stesso modo, in Yōtei, ogni scontro è preceduto da un crescendo orchestrale, interrotto da silenzi improvvisi, poi esploso in suoni stridenti al momento del colpo: un gioco ritmico che riproduce la tensione emotiva prima dell'attacco, come in un duello diretto da Sergio Leone.
Il montaggio è frammentato, ma studiato: la telecamera si avvicina fino a pochi centimetri dal colpo, si allontana in uno shot panoramico, si riflette sulla lama insanguinata. Le ellissi temporali tra un colpo e l'altro, le dissolvenze incrociate e i tagli ricordano esplicitamente la grammatica visiva tarantiniana, dove la scena d'azione è anche scena di introspezione.
Il film dentro il gioco: il cinema come forma interattiva
Ghost of Yōtei non presenta semplici filmati da guardare tra un combattimento e l'altro. Ogni sequenza è una coreografia cinematica, ogni movimento una battuta visuale. L'intero impianto è pensato come se il giocatore fosse il regista di un film interattivo: può rivedere le scene in replay, scegliere angolazioni, rallentare l'azione. In questo modo, l'interattività non interrompe l'immersione narrativa, ma la amplifica. La spada non è solo un'arma: è una penna con cui riscrivere il passato.
Così come Kill Bill alternava narrazione testuale e ritmo da videoclip, Yōtei sfrutta la scenografia - una Hokkaido innevata e spettrale - per creare ambienti che funzionano come quinte teatrali. Ogni duello è un set, ogni spostamento è un piano sequenza. Non si gioca Ghost of Yōtei: lo si dirige.
Ghost of Yōtei non si limita a citare Kill Bill: lo interiorizza. Usa le sue regole, la sua estetica, la sua struttura per creare un'esperienza completamente nuova, in cui il giocatore è al tempo stesso spettatore, protagonista e regista. La lista da cancellare non è solo una quest: è un percorso emotivo, un montaggio di colpi, visioni, flashback e catarsi.
Questa è la dimostrazione più chiara che il videogioco, oggi, può essere cinema senza essere "solo" cinema. Che può fondere il pulp americano con il teatro kabuki, la poetica samurai con la frenesia della cultura pop.