Paolo Villaggio apostrofò la Corazzata Potёmkin con la celebre frase che non ripeteremo, eppure nel suo essere irriverente, in quel momento il ragionier Fantozzi esprimeva un concetto semplice, immediato: il cinema d'autore non è per tutti e non deve esserlo. A subentrare a quella che fu l'agorà filosofica delle grandi questioni morali dell'uomo dagli anni '40 in poi (il cinema) ora è il videogioco, non tanto per una questione di età, quanto per una questione di linguaggio. Il videogioco è la lingua dell'intrattenimento delle nuove generazioni ed è in costante crescita, nonostante il cinema non sia certo in declino. In questo scenario dunque, anche il videogioco ha iniziato a proporre una variazione di prodotti non soltanto nel genere ludico di appartenenza, ma anche nel modo autoriale della creazione. La distinzione tra videogioco d'autore e videogioco di puro intrattenimento è sempre più visibile e questo non può che farci piacere. Il gameplay di Death Stranding che Hideo Kojima ha mostrato sul palco del TGS si inserisce in questo contesto e forse è il caso di rifletterci assieme.
Riflessioni sul gameplay
Durante la dimostrazione, a seguito del rilascio sui canali ufficiali PlayStation del trailer Briefing disponibile solo nello stand della casa di Tokyo alla Gamescom, Kojima ha commentato alcune porzioni di gameplay spiegando (in lingua giapponese senza traduzione) gran parte di ciò che veniva mostrato. Nonostante nei 48 minuti di gameplay di cose ne siano state mostrate parecchie, molti dei misteri attorno al titolo (per fortuna) non sono stati dissipati. Quello che si evince dal trailer è la minuziosa cura con cui Kojima ha voluto unire la libertà del giocatore con la linea autoriale della sua idea di base. L'utente infatti può agire entro certi limiti che sono stati volutamente resi ampi in maniera fittizia. Le svariate possibilità dell'open world di Death Stranding vengono volontariamente limitate dalla desolazione dell'ambientazione, dall'obiettivo unico e principale di collegare le persone isolate fino ad arrivare a Edge Knot City, città in cui Amelie è tenuta in ostaggio come garanzia dagli Homo Demens. Un open world classico, ricco di persone e popolato da una fauna e una flora "viva e pulsante" avrebbe limitato l'idea autoriale di Kojima che è sempre quella di raccontare la sua storia nel suo modo.
Spesso in un gioco d'autore esistono caratteristiche uniche che rispecchiano anche la sua voglia di sperimentare. Se ad esempio in The Last Guardian fu il dover gestire il rapporto con Trico e la rappresentazione dell'"umanità" dell'animale, in Death Stranding questo è rappresentato dall'assenza del Game Over. Dopo qualche decina di minuti, il trailer supera la presentazione del viaggio e dei meccanismi di interazione ambientale, andando a mostrare come funziona il sistema di Game Over. Nel momento in cui le BTs (CA in italiano) si manifestano, Sam dovrà agire in maniera furtiva e silenziosa per non allertarle; se così non succederà, la caccia all'alter ego di Norman Reedus inizierà. Se tale caccia dovesse terminare con la cattura di Sam, quest'ultimo non morirà come nei più classici videogiochi, ma verrà trascinato in un piano alternativo (dall'altro lato) da cui scappare per tornare alla "normalità". Tra boss battle surreali, aiuti sotto forma di rifornimenti da altri giocatori online e sessioni di fuga, il Game Over di Kojima è forse l'impronta più evidente dell'autorialità impressa in Death Stranding. A chiudere il trailer c'è poi la più forte immagine di quello che Kojima ha intenzione di fare con questo titolo: Sam scende il dorso ripido e verdeggiante di un'altura scrutando quella che era la destinazione impostata all'inizio del video, mentre in sottofondo una musica ricca di note emozionali descrive a livello acustico l'immaginario mostrato a schermo. La scelta non è casuale, è l'emblema del racconto che Kojima vuole offrire nella sua essenza più pura: l'intimità di un viaggio.
Il videogioco d'autore
In questa analisi molto astratta (rispetto alla nostra anteprima) del trailer, abbiamo parlato di videogioco d'autore e autorialità. Per inquadrare meglio il tutto forse è necessario circoscrivere ciò di cui stiamo parlando. L'autorialità videoludica non nasce di certo nel 2019 con Hideo Kojima: già dai tempi di PlayStation 1 possiamo trovare esponenti di un genere, quello del videogioco d'autore, che partiva dall'idea di rappresentare la visione personale di un creatore prima che una mera forma ludica. In questo la corrente nipponica fu decisamente florida, con diversi esponenti che dagli anni '90 agli anni 2000 iscrissero il loro nome all'albo dei grandi ideatori di videogiochi. Ueda, Miyazaki, Nomura, Yu Suzuki, Yoko Taro, lo stesso Kojima sono tutti esponenti della classe '60/'70 degli sviluppatori giapponesi che hanno saputo imprimere in ogni loro opera un'idea di base, che fosse il vero filo conduttore della produzione. Queste impronte, peraltro, sono sempre accomunate da esperienze personali che segnano l'uomo che sta dietro l'autore e che di conseguenza vengono trasposte nell'opera che lo contraddistingue. Basti pensare che l'idea alla base dei Pokémon, elaborata da Satoshi Tajiri (anch'egli nato a cavallo di quella generazione, nel 1965) parte da un'esperienza di vita fortissima, ovvero il divertimento principale dei bambini del sobborgo di Machida a Kanto: collezionare insetti.
La crescita del movimento autoriale videoludico continuò dunque e si espanse anche in occidente, nonostante le maggiori difficoltà, con la nascita di figure di spicco anche in questo lato del mondo. Negli ultimi anni grazie alla forte espansione della cultura videoludica e dell'attenzione mediatica attorno al medium si è arrivati finalmente a poter inquadrare e diversificare un'opera autoriale da una più prettamente ed esclusivamente ludica che non vuole a tutti i costi far riflettere il fruitore. Quello che però è successo in questo frangente, in maniera inaspettata, è stata la mitificazione di uno di questi autori, a principale esponente dell'autorialità videoludica anche a livello mass mediale. Kojima, con il caos Konami, la conclusione della saga di Metal Gear e la decisione di aprire uno studio personale ha generato un'attenzione mediatica superiore alle aspettative (complici anche le sue celebri amicizie coltivate durante gli anni). Una grande passione pubblicamente dichiarata del maestro di Setagaia è sempre stata quella del cinema: fonte di ispirazione e punto di riferimento in molte delle sue scelte. In quest'ottica dunque, la creazione di Death Stranding è la più grande occasione per il videogioco d'autore di mostrarsi al pubblico che generalmente non si accosta ai videogiochi, ma è anche una grande opportunità per fare un ulteriore gradino nella crescita generale del mondo videoludico. Si badi bene: Death Stranding non piacerà a tutti e non deve farlo, ma ha nelle sue possibilità la chance di "collegare" quante più persone possibili attraverso un videogioco, suscitando riflessioni, su quello e in quello che sarà non solo un grande momento di aggregazione, ma soprattutto di crescita e di discussione. Il trailer di Death Stranding del TGS è stato un momento utile per riflettere sul ruolo del titolo Kojima Productions, le volontà dell'autore sono ora più chiare nonostante il titolo rimanga avvolto ancora da una più leggera, ma affascinante coltre di nebbia. Sabato ci sarà un'altra sessione di gameplay, cosa verrà mostrato e se ciò approfondirà alcuni dettagli più profondi non è dato saperlo. Nel frattempo però, il videogioco d'autore compie i passi preparatori prima del grande balzo.