Perché proprio sette, potrebbe essere la prima domanda a venirvi in mente aprendo questo articolo. È un numero sospeso, a metà strada tra quel dieci con cui spesso si stilano liste o classifiche e il cinque che invece può essere una giusta via di mezzo. Potrebbe essere una strizzata d'occhio a "I Sette Samurai", per richiamare già nel titolo Akira Kurosawa e il suo enorme apporto allo sviluppo di un gioco come Ghost of Tsushima. No, non si tratta di questo. Va detto che il sette è un numero piuttosto ricorrente nella cultura giapponese, dalle sette divinità della fortuna alla tradizionale festa Tanabata (settima notte), fino ai sette misteri di Honjo risalenti al periodo Edo. Potremmo citarne diversi altri ma a questo punto avete afferrato l'idea. Sette sono però anche i concetti fondamentali sui quali si fonda il Bushido ed è proprio da questo presupposto che siamo partiti per scrivere: creare un giocoso legame con la figura del samurai, così importante in terra natia. A ogni luogo, del resto, la sua figura di riferimento: negli Stati Uniti ci sono i cowboy, in Europa i cavalieri, in Giappone i samurai.
Questa onorevole classe aristocratica è stata per anni un affascinante archetipo nella cultura pop, non ultimo nel cinema giapponese. Un tempo, i film sui samurai (conosciuti come Chanbara) erano il genere dominante in Giappone, tuttavia con il passare del tempo sono divenuti sempre meno popolari tra il pubblico. I fattori sono molteplici ma ciò non significa dimenticare il passato, anzi. Sonsapevoli del valore che queste opere hanno avuto per lo sviluppo di Ghost of Tsushima, abbiamo deciso di suggerirvi alcuni tra i migliori film sui samurai da guardare nell'attesa. Spoiler: non saranno tutti di Kurosawa.
Umanità e palloni di carta (1937)
Il melodramma di Sadao Yamanaka fu probabilmente il punto culminante del cinema giapponese negli anni '30: il film in questione racconta la storia di un ronin in difficoltà che viene coinvolto nel rapimento di una giovane erede da parte del suo vicino. Matajuro è un samurai disoccupato, che cerca disperatamente di sbarcare il lunario mentre sua moglie rimane in casa a fare palloncini di carta. La sua storia è particolarmente insolita, persino per un film di samurai, mentre lotta per sfuggire alla povertà senza per questo abbandonarsi a una vita criminale. Yamanaka mette in luce il lato meno frequentemente documentato della società feudale, presentando povertà e disperazione per controbilanciare i temi tradizionali del dovere e dell'onore. Si tratta del suo ultimo film, poiché il regista è stato arruolato nell'esercito il giorno dell'uscita nelle sale ed è morto in combattimento a soli 29 anni.
Il trono di sangue (1957)
Conosciuto anche come "Il castello della ragnatela" (trattasi della traduzione letterale del titolo originale), il Macbeth di Shakespeare è trasposto nel Giappone medievale del XVI secolo in questo straordinario film, adattamento di Akira Kurosawa che vede Toshiro Mifune nel ruolo principale. Lady Asaji Washizu è determinata a prendere il potere attraverso suo marito: a partire dall'omicidio del re si dà il via a una sanguinosa campagna in cui le alleanze vengono infrante e i cadaveri si accumulano senza sosta. Nonostante la barriera linguistica e alcune deviazioni rispetto trama dell'originale, "Il trono di sangue" è stato definito come forse il miglior adattamento shakespeariano mai dedicato allo schermo. Persino senza avere conoscenza pregressa dell'opera teatrale questo film risulta eccezionale, un'epopea soprannaturale dove l'ambizione e la crudeltà umana sono sinistre al pari di qualsiasi altra forza terrena.
Harakiri (1962)
Ambientato alla fine del periodo Tokugawa - o Edo se preferite, 1603-1868 - questo avvincente film racconta la storia di Tsugumo Hanshiro (interpretato Tatsuya Nakadai, che per il regista Masaki Kobayashi è stato l'equivalente di Mifune per Kurosawa), un samurai che perde la sua rispettata posizione nella società. Senza un posto dove andare, cerca di reintegrarsi nel mondo e di riconciliare il proprio passato eroico con le dure realtà del presente. Un inno allo spirito umano e una riflessione sulle follie della mortalità, il film è anche una profonda meditazione sulla fine di un'era, oltre a uno sguardo agli aspetti più tragici dell'essere parte della classe dei samurai nell'antico Giappone. Un classico che evidenzia la figura del ronin e la contraddizione di un percorso, quello del Bushido, al quale nessuno credeva davvero ma per cui era disposto a morire se serviva a dimostrare la propria rettitudine.
Samurai Assassin (1965)
Toshiro Mifune è di nuovo sul set, questa volta diretto da Kihachi Okamoto, per interpretare Niiro Tsurichiyo, un ronin coinvolto nel tentato omicidio di un importante funzionario il cui ruolo sarà cruciale nella scelta del nuovo shogun. Convinto di avere nobili natali, Niiro vuole dimostrarsi un samurai uccidendo il suo bersaglio, guadagnando così il rispetto di suo padre. Ma le cose prendono una piega inaspettata, costringendo il ronin a rivalutare la sua posizione. La tragicità di Niiro ricorda un approccio "shakesperiano", come tragica è la storia che trova nella tradizione dei samurai la perfetta espressione del suo cupo arco narrativo. Mifune è magistrale, mentre la bellezza dei combattimenti riesce a superare il muro del bianco e nero per farci immaginare senza difficoltà la purezza della neve sporcata dal sangue.
L'ultimo samurai (1967)
Masaki Kobayashi presenta l'affascinante storia di un vecchio samurai che, riflettendo su una vita da lui percepita come vuota e mai realizzata davvero, decide di ribellarsi al suo crudele maestro. Isaburo Sasahara è un uomo disilluso, tuttavia nel difendere la propria famiglia e rifiutando la malvagità del suo padrone, alla fine trova qualcosa per cui vale la pena lottare. E che combattimenti. Le opere di Kobayashi hanno spesso la tendenza di andare oltre la leggenda del samurai sempre obbediente, analizzando il valore di un sistema feudale tanto rigido senza per questo rinunciare all'adrenalina di un buon combattimento all'arma bianca. La tensione nel film nasce da passioni profonde imbrigliate in un ferreo ordine sociale: parole e gesti dei personaggi sono dettati nei minimi dettagli dai codici di quel tempo, ma le loro emozioni sfidano questi codici e bucano lo schermo per arrivare a noi.
Lone Wolf and Cub: Sword of Vengeance (1972)
Il primo di una serie di sei, questo film segue le avventure di Ogami Ittō, ex boia dello shogun che non avendo più un lavoro si ritrova a vagare per le campagne giapponesi con il suo giovane figlio Daigoro. Ittō è un tipo burbero, che sembra aver perduto il sorriso e non lo si può nemmeno biasimare, sapendo cosa gli è successo in passato. Per quanto riguarda le sue capacità genitoriali... diciamo che ha un modo tutto suo di essere un padre. In uno specifico momento della sua vita, ha offerto a Daigoro una scelta tra una spada e una palla: se il bambino avesse voluto quest'ultima, Ittō lo avrebbe ucciso per ragioni che non vi spieghiamo se ancora dovete vedere il film. Nel complesso, è una storia di vendetta ridicolmente interessante che ci porta a una resa dei conti perfetta per lo scenario creato. Persino la carrozzina di Daigoro ha un ruolo nel film, essendo custode di un vero e proprio arsenale nascosto. Gratificante e raccapricciante al tempo stesso, è la pellicola sui samurai nella sua forma più bassa e sporca.
Ran (1985)
Chiudiamo questa lista passando ancora una volta da Akira Kurosawa. Fu il film giapponese più costoso mai prodotto al momento della sua uscita, con un budget di oltre dodici milioni di dollari. Ancora ispirato a Shakespeare, precisamente a Re Lear, racconta la storia del sovrano Hidetora Ichimonji che decide di dividere il suo regno tra i suoi tre figli affinché ne derivi una brutale lotta di potere. Kurosawa non era certo estraneo alle epopee a grande schermo ma qui siamo di fronte a un'opera che non sfigurerebbe accanto ai più grandi film di guerra di tutti i tempi. Le sequenze di battaglia fecero uso di 200 cavalli e oltre 1.400 uniformi e set di armature furono realizzati artigianalmente. Al regista è stato dato il permesso speciale di filmare negli antichi castelli di Meiji e Kumamoto e ha persino costruito un vero castello sulle pendici del Monte Fuji, solo per bruciarlo durante la scena finale del film. Le richieste di realizzare il film furono tali che quando la moglie di Kurosawa, Yoko Yaguchi, morì durante le riprese a 39 anni, il regista si prese un solo giorno libero per piangere prima di riprendere il lavoro. Il risultato finale è un vero e proprio monumento nel panorama cinematografico mondiale, con scene di battaglia tanto vivide da poter quasi trasmettere l'odore del sangue, del sudore e della polvere da sparo.