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Perché cooperare nei videogiochi ci piace e come può cambiarci (in meglio)

Giocare in compagnia di qualcuno, fianco a fianco o a distanza, ha una profondità e un senso tutti suoi: abbiamo chiesto al pluripremiato Josef Fares e alla dottoressa Elena Del Fante di raccontarceli.

SPECIALE di Stefania Sperandio   —   25/11/2025
videogiochi cooperativi

C'è qualcosa di affascinante, nei videogiochi cooperativi. Da poco, mi sono ritrovata a pensarci mentre mettevo alla prova Little Nightmares III: i due personaggi che si muovevano sullo schermo erano lì per condividere paure e difficoltà, affinché si trovasse insieme il modo di avanzare. Proprio quella parola, "insieme", è la chiave.

Un po' per abitudine, spesso si pensa ai videogiochi come a qualcosa dove ci si sfida: uno sparatutto online, gli scontri in sala giochi davanti al cabinato di un picchiaduro, quelli all'ultimo minuto di recupero su un calcistico o all'ultima curva in un Mario Kart. Eppure, contemporaneamente, quello "sfidarsi" sottintende anche un cooperare: tutti partecipano per rendere possibile l'esperienza di gioco, il divertimento.

C'è una sorta di magia, allora, dietro i videogiochi che su quel senso di co-partecipazione fanno leva e riescono ad erigere tutta la loro anima. Che siano quelli che ci fanno giocare insieme sul divano, o a distanza, o addirittura con qualcuno che non incontreremo mai e con cui non potremo mai interagire - i giochi cooperativi ci motivano a fidarci degli altri e a trovare con loro un incastro. Per fine ludico, certo. Ma forse anche perché, in fondo, è ancora vero che siamo animali sociali e che le esperienze sono più indelebili, quando sono condivise.

Ma come si costruisce questa "magia"? Cosa differenzia un gioco in co-op da uno in singolo, sia in termini di come si progetta che per come ci si rapporta chi gioca? Lo abbiamo chiesto direttamente a due massimi esperti: Josef Fares, il pluripremiato game director di Hazelight Studios (It Takes Two, A Way Out e il recentissimo Split Fiction, peraltro nominato ai TGA 2025), e la dottoressa Elena Del Fante, psicologa digitale e videogame therapist specializzata nella ricerca neuroscientifica per lo sviluppo di videogiochi per il potenziamento cognitivo.

Creare la cooperazione

Immaginare un videogioco che stimola la collaborazione è diverso dal creare un'esperienza dove devi arrangiarti da solo. "Ci sono molte cose da considerare, devi pensare da una prospettiva completamente diversa" ci ha raccontato Josef Fares. L'autore, vincitore del Gioco dell'Anno ai The Game Awards 2021 con il suo It Takes Two, da tempo ormai si è specializzato proprio nella creazione di giochi in co-op dalla forte impronta narrativa.

"In Hazelight, ad esempio, ci accertiamo che i giocatori siano totalmente dipendenti l'uno dall'altro, in modo che cooperare non sia una cosa che fai ogni tanto: devi avere dei personaggi a cui ti senti legato e dei personaggi che si completano a vicenda" ha aggiunto.

Split Fiction è il più recente lavoro diretto da Josef Fares, che si è specializzato nella creazione di giochi con co-op locale
Split Fiction è il più recente lavoro diretto da Josef Fares, che si è specializzato nella creazione di giochi con co-op locale


In termini di design, insomma, è fondamentale trovare delle forme di interazione uniche che rendano indispensabile ogni protagonista: in questo modo, se ad esempio giochiamo in due come in It Takes Two, entrambi gli utenti sanno di essere fondamentali, non ce n'è uno più rilevante (e quindi più centrale e coinvolto) dell'altro. "È un concetto che si applica anche al design: ogni puzzle e ogni momento devono farti sentire che il tuo personaggio ha a disposizione un approccio unico per affrontarli" ha rimarcato Fares.

Queste unicità si riflettono anche nella costruzione della narrazione. Non tutti i giochi cooperativi abbracciano storie articolate per farci giocare insieme - pensate a Overcooked! o alle volte in cui, ai tempi di ISS Pro, avete giocato con qualcuno anziché contro -, ma quelli di Fares sì. E la sfida narrativa è complessa per un motivo preciso: devi comunque riuscire a far comunicare i giocatori.

"Scrivere una storia per un gioco cooperativo è un po' diverso, perché vogliamo che i giocatori comunichino tra loro" ci ha raccontato. "Questo significa che non puoi affidarti agli storyboard tanto quanto faresti per un normale single-player. In un'esperienza per singolo giocatore, gli utenti sono più concentrati sull'esperienza stessa. Quando giocano in co-op, invece, si parlano". Nello scrivere, bisogna allora tenere conto del fatto che, mentre avvengono i fatti su schermo, si muovono anche i fatti fuori dallo schermo: i giocatori, a maggior ragione quando si parla di co-op locale, interagiscono tra loro, si confrontano, si emozionano o si ingegnano insieme per trovare soluzioni a quanto la vicenda del videogioco gli ha sottoposto.

Così, tenendo conto delle dinamiche che si creano tra gli utenti, in sede di progettazione si può arrivare a creare giochi cooperativi anche molto diversi tra loro - per modi di interagire, per atmosfera, per ciò che comunicano a chi gioca. A fare la differenza in come si legheranno i giocatori, però, più che l'atmosfera del gioco in sé è il modo in cui ci fa legare all'altra persona, come ci spinge a interagire tra noi.

È importante, in sede di design, che tutti i giocatori coinvolti in un'esperienza cooperativa sentano di essere fondamentali
È importante, in sede di design, che tutti i giocatori coinvolti in un'esperienza cooperativa sentano di essere fondamentali


"Il titolo in sé può cambiare il tipo di esperienza cooperativa e, di conseguenza, cambiare il modo con cui possiamo legarci all'Altro. Ma, più che il titolo in sé, conta come giochiamo insieme: la qualità dell'interazione è ciò che modula l'effetto relazionale" ha sottolineato la dott.ssa Del Fante. "Giocare insieme ci lega di più e gli effetti sono immediati: dopo una sessione cooperativa aumenta la prosocialità". E, di conseguenza, si creano dei legami e delle dinamiche tra i giocatori, rese possibili solo dal videogioco. È anche il motivo per cui persone come Fares hanno deciso di specializzarsi nei giochi cooperativi: ciò che si costruisce nel mondo reale grazie alla cooperazione nel mondo virtuale.

"Amiamo creare esperienze cooperative perché pensiamo che avere due giocatori seduti sullo stesso divano, o online, con due personaggi totalmente diversi con le loro personalità crei delle dinamiche davvero interessanti, sia dal punto di vista della narrazione che da quello del gameplay" ci ha confidato Fares. "Mi piace stupire la gente e fargli vivere un viaggio attraverso una storia, attraverso la narrativa che affrontano insieme, perché in fin dei conti ciò che i giocatori vogliono è proprio questo: vivere insieme delle storie" ha continuato. Dopotutto, anche negli altri media facciamo la stessa cosa: "quando guardi un film, o vai a teatro, vuoi vivere quelle cose insieme a qualcuno e penso che sia ancora meglio quando puoi farlo in modo interattivo".

Empatia e videogiochi, come migliorare i rapporti umani attraverso l'arte digitale Empatia e videogiochi, come migliorare i rapporti umani attraverso l'arte digitale

Cosa ci succede quando cooperiamo in un videogioco?

Anni fa, una buona parte della mia famiglia si è trovata davanti a Nintendo Switch e a Overcooked! per cercare di gestire le follie di quelle cucine. Per chi ci guardava senza giocare, deve essere stato sia strano che interessantissimo: c'era chi assumeva subito il comando dando disposizioni agli altri per cercare di completare le sfide, chi prendeva il gioco sul serio, chi non riusciva più a stare sulla sedia dalle risate, chi voleva concentrarsi solo su una mansione dicendo "no, io faccio questo, dividetevi le altre cose" e chi era più collaborativo e si muoveva tra il lavare i piatti e il cuocere gli hamburger, senza mai fermarsi. Tante personalità diverse, di età diverse, hanno trovato il modo di incastrarsi, divertendosi, per andare avanti.

"Nonostante i tanti stereotipi legati alla (a)socialità del gaming, alcuni studi hanno mostrato come anche pochi minuti di gaming in co-op ci portano ad essere più cooperativi e predisposti a offrire aiuto all'Altro, sia fuori che nel gioco stesso" ci ha spiegato Del Fante, a tal proposito. "Anche nei vari protocolli di Video Game Therapy® (protocollo ideato dal collega Francesco Bocci) usiamo le modalità cooperative di molti titoli, poiché la cooperazione in contesti ludici risulta efficace per migliorare la regolazione emotiva, potenziare l'empatia, nonché la fiducia anche in contesti non ludici".

Tra gli esempi, la dottoressa cita contesti aziendali in cui si cerca di rafforzare la coesione del gruppo, o quelli relazionali in cui bisogna affrontare dei conflitti: un gioco è "un terreno sicuro di incontro", ci spiega, "che permette di leggere e trasformare le dinamiche relazionali in funzione di un obiettivo comune".

La scienza sa anche perché (e come) tutto questo funziona: "a livello neurocognitivo, giocare insieme sincronizza i cervelli dei player, in particolare nelle aree prefrontali e temporo-parietali, che sono coinvolte nella pianificazione condivisa, nel monitoraggio dell'altro e nella co-regolazione dello stress. In altre parole, la cooperazione videoludica non è solo un'esperienza sociale: è una vera e propria risonanza neuro-emotiva, capace di rinforzare empatia, fiducia e connessione autentica" ha aggiunto Del Fante.

La folle gestione delle cucine in Overcooked! spinge per forza a collaborare per rispettare le comande
La folle gestione delle cucine in Overcooked! spinge per forza a collaborare per rispettare le comande


E questo accade a prescindere dal gioco in sé: che si tratti di superare insieme uno scenario da incubo in Reanimal, di sfoderare le armi in Resident Evil 5 o di affrontare mondi fantasy e sci-fi in Split Fiction, la cooperazione ci rende più disposti a fidarci degli altri. "La tensione condivisa - sperimentata in giochi come Little Nightmares III e Phasmophobia - ci unisce nella co-regolazione della paura, attivando meccanismi di fiducia" cita la dottoressa. "Ciò favorisce senz'altro fiducia reciproca e alleanza emotiva".

"La leggerezza condivisa, invece - tipica in titoli come Overcooked o It Takes Two - genera affiliazione e sincronizzazione positiva, attraverso la comicità degli errori e l'euforia. In entrambi i casi, la cooperazione diventa una forma di risonanza neuro-emotiva: due cervelli che risuonano insieme, che sanno di poter davvero contare l'uno sull'altro. È questa consapevolezza condivisa che genera fiducia - la certezza che l'Altro c'è, nel bene e nel male".

E se la cooperazione è lontana e silenziosa?

Cooperare in un videogioco non richiede di farlo necessariamente fianco a fianco, proprio come raccontare una storia interattiva non necessita per forza di parole e sequenze filmate. Un'opera come Journey, ad esempio, ha dimostrato in modo eccellente entrambe le cose: non molti giocatori si aspettavano di emozionarsi camminando verso l'ignoto, mentre l'inverno della vita si faceva più rigido, insieme a un totale sconosciuto che non incontreranno mai più - e invece eccoci qui. È un titolo che si è fatto allegoria della vita stessa - non sai chi incontri, né per quanto, né verso dove andrete - e che costruisce il suo impatto proprio sulla cooperazione disinteressata tra totali estranei.

"Un titolo come Journey funziona a livello relazionale perché attiva meccanismi di connessione sociale empatica non verbale basati sui processi noti in letteratura come 'Shared Attention', 'Collective Flow' e 'Simulazione incarnata', che sono alla base di ogni esperienza sociale" ci spiega Del Fante, quando citiamo l'opera di Thatgamecompany. "Pur non potendo comunicare verbalmente, al fine di coordinarsi i giocatori orientano le proprie risorse attentive ai segnali minimi presenti che sono di natura visiva e motoria, generando un'esperienza di co-presenza sociale e di co-regolazione affettiva".

Journey mette in scena una cooperazione diversa, silenziosa, disinteressata, fondata puramente sull'empatia
Journey mette in scena una cooperazione diversa, silenziosa, disinteressata, fondata puramente sull'empatia


È un processo che passa attraverso i cosiddetti neuroni specchio: "quando vediamo qualcuno muoversi, soffrire o gioire, il nostro sistema sensomotorio si attiva come se stessimo vivendo quell'esperienza". Questa sorta di sincronizzazione delle nostre percezioni attiva quello che in psicologia è conosciuto come "flow": in questo caso, "un flusso condiviso in cui l'attenzione e il senso di sé si fondono nell'azione congiunta". Ed è proprio basandosi sulla concretezza dei gesti che Journey funziona: i giocatori hanno modo di sentirsi e avvertirsi grazie al corpo virtuale che controllano nel mondo di gioco e alle azioni che questo gli permette di condividere per aiutare l'altro.

Anche un gioco come Death Stranding è un cooperativo "silenzioso", nelle sue meccaniche di collaborazione asincrona: di solito i giocatori tengono molto alle risorse che guadagnano con la loro fatica, ma qui le donano ad altri che non incontreranno mai, pensando che potrebbero essere utili per facilitare il loro viaggio. Un'idea lontanissima dallo stereotipo obsoleto del videogiocatore che vuole primeggiare sugli altri - e diversa anche da Journey, dove quantomeno il nostro compagno di viaggio era lì con noi, sconosciuto ma tangibile.

"Da psicologa sicuramente osservo un nuovo segnale culturale molto forte che, inevitabilmente, si riflette nel videogioco" riflette con noi Del Fante, quando le sottoponiamo l'esempio del viaggio solo apparentemente solitario di Sam Porter Bridges. "Come ogni prodotto culturale, il gaming racconta una nuova e - a mio avviso necessaria - rivoluzione identitaria e sociale: quella di un paradigma meno performativo, bensì più relazionale e valoriale. Non conta vincere, ma vivere l'esperienza, accogliere l'emozione e dare senso anche al fallimento, perché insito nell'intera esperienza. Infatti, il game over non è solo una meccanica di gioco, ma un passaggio necessario alla crescita".

"Death Stranding incarna perfettamente questo nuovo paradigma: un mondo apparentemente solitario ma costruito sulla cura dell'altro invisibile. Donare un equipaggiamento a uno sconosciuto che non incontreremo mai significa partecipare a una rete di altruismo simbolico, dove l'aiuto è motivato non dal riconoscimento, ma dal senso di connessione umana".

In Death Stranding, i giocatori cooperano senza potersi mai incontrare davvero: si donano risorse agli altri e si costruiscono strutture utili a tutti
In Death Stranding, i giocatori cooperano senza potersi mai incontrare davvero: si donano risorse agli altri e si costruiscono strutture utili a tutti


Non è un caso che molti titoli che ci permettono di creare interazioni di valore con altre persone con cui cooperiamo, e anche delle vere e proprie relazioni di gioco, stiano riscuotendo successo e popolarità.

E non è davvero magia come dicevamo in apertura: succede, sottolinea la dottoressa, "perché ci permettono di riflettere, di sentirci, di accogliere la complessità emotiva e mentale che viviamo". Mentre lo dice, mi torna in mente quella volta in cui, nel 2020, mi ritrovai a scorrazzare con mio fratello lungo la sua isola in Animal Crossing: New Horizons, a scambiarci frutti e doni. Nella realtà io ero in Italia, lui in Australia, con una pandemia di mezzo - ma, mentre collaboravamo scorrazzando lungo il mondo di gioco, la distanza non esisteva più: anzi, eravamo più vicini che mai e andava tutto bene.

È proprio così che i videogiochi che ci fanno collaborare, che ci incoraggiano a fare le cose insieme, ci cullano e fanno breccia: funzionano, conclude Del Fante, perché "offrono spazi sicuri dove possiamo fermarci, riconoscerci - e persino guarire giocando".