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The Last of Us 2, il tema della violenza

C'è violenza e... violenza: quella di The Last of Us 2 è "tollerabile" o è "di troppo"? Parliamone insieme attraverso un viaggio analisi nel suo mondo post-apocalittico

SPECIALE di Massimo Reina   —   15/06/2020
The Last of Us Parte II
The Last of Us Parte II
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Molte sequenze presenti in The Last of Us 2 ci hanno messo di fronte a un'esperienza per molti versi più cruda rispetto al precedente capitolo, complice un comparto grafico estremamente realistico nel restituire volti, espressioni ed emozioni, un maggior realismo nei colpi inferti e una trama dove non mancano momenti piuttosto cruenti. Questo ovviamente ha alimentato ulteriori polemiche, dopo quelle delle settimane precedenti, al rilascio delle recensioni del gioco. E così si è tornato a parlare con una certa irruenza, giusto per rimanere in tema, del solito "presunto" rapporto tra videogame e atteggiamenti aggressivi e di violenza nei videogiochi. Soprattutto di quanto quest'ultima sarebbe spesso fine a se stessa, superflua e utilizzata dagli sviluppatori per compiacere un certo tipo di pubblico.

Un'estetizzazione della violenza che a ben vedere, secondo noi, non può riguardare l'opera di Naughty Dog, dove seppur presente in gran quantità, essa costituisce più una componente chiave del contesto narrativo del gioco, che una mera spettacolarizzazione del brutale.

Un mondo violento

Come sostiene Margaret Bruder, docente di cinema all'Università dell'Indiana e autrice di "Aestheticizing Violence, or How To Do Things with Style", bisogna fare un distinguo tra le opere che "indugiano abbondantemente su armi da fuoco, sangue ed esplosioni", sfruttando la messa in scena per creare volutamente un certo "effetto spettacolo", da quelle che invece utilizzano la violenza per rappresentare la veridicità di un atto e sostenere una sequenza narrativa. The Last of Us II tratta tematiche forti, di quelle considerate generalmente scomode, provando a scavare in certi casi nell'Io più profondo e meschino del genere umano attraverso le gesta e le azioni dei suoi protagonisti.

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Questi si muovono e agiscono all'interno di un mondo desolante, brutale e spietato. Un mondo dove non esistono più regole, e dove non si può vivere senza accettare compromessi, senza adattarsi. Dove ogni azione, anche la più barbara e atroce è ritenuta "normale". Perfino uccidere i più deboli e, in casi estremi, addirittura divorarne le carni, se questo può servire a vivere ancora un altro giorno. Perché quello è il "nuovo mondo" che l'umanità ha "saputo" costruirsi con l'egoismo e l'odio. Un mondo dove le teorie darwiniane sulla selezione naturale hanno trovato casa. Dove la moralità, la legge e la civiltà hanno lasciato il posto ai più brutali istinti primordiali dell'essere umano. Con le persone che muoiono di fame e i beni di prima necessità sempre più scarsi, volenti o nolenti, ciascun sopravvissuto alla pandemia prima o poi deve fare i conti con la violenza, come vittima o carnefice.

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Halley Gross, una delle autrici della sceneggiatura di The Last of Us II, ha detto che Naughty Dog ha lavorato sulla violenza con l'intento di rappresentarne l'andamento ciclico. Sostanzialmente l'idea che si intende trasmettere è che la violenza non faccia che generare ulteriore violenza. L'autrice ha dichiarato che in questo caso le esperienze vissute da Ellie assumono una connotazione traumatica: "È un tema che ci interessa molto e credo sia un'ottima cosa che le persone ne discutano". In The Last of Us II, concetti come "bene" e "male" sono quindi piuttosto astratti, e non potrebbe essere altrimenti, lo ribadiamo, visto il contesto. Giocando, l'utente si interroga spesso su quando un'azione smette di essere corretta per diventare sbagliata, se i protagonisti siano buoni o cattivi. E non riesce quasi mai a stabilirlo in maniera definitiva, perché la linea ideale che separa il bene dal male non è netta ma estremamente sottile.

Il fine giustifica i mezzi ?

Una sorta di zona grigia dove anche il più mite degli individui, sospinto da disperazione, terrore o furia può avere comportamenti "ambigui", in antitesi con quella che è la sua natura. Lo scrittore Primo Levi, deportato nel campo di concentramento di Auschwitz nel 1943, la definiva proprio un'area intermedia tra il bianco e il nero, tra le vittime e i carnefici, all'interno della quale persone "normali" avevano la tendenza a compiere azioni in contrasto con la loro indole o con il proprio status di sottoposto o addirittura vittima.

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In The Last of Us II, come del resto nel predecessore, Naughty Dog ha avuto il coraggio di osare, di proporre personaggi naturali, complessi e moralmente ambigui, le cui azioni, per cause di forza maggiore sono costantemente in bilico fra ciò che è lecito e ciò che è illecito. E questo li rende unici per certi versi. La violenza che permea alcuni frangenti del gioco diventa così credibile e non risulta mai gratuita: se in altri titoli si uccide spesso per divertimento o per ottenere un punteggio, in The Last of Us II è una scelta più o meno dolorosa per il giocatore. Funzionale e cruda, ma quasi sempre "giustificata" dagli eventi.

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Così, quando Ellie a un certo punto della storia elimina uno dopo l'altro un gruppo di aggressori in un turbinio di grida e sangue, per poi sferrare il colpo di grazia al leader, in ginocchio davanti a lei sconfitto e inerme, mozzandogli la testa con due colpi netti di machete, tutto appare "naturale". Come conseguenza di un complesso insieme di situazioni anomale, e della sinergia di vari fattori, uccidere diventa in quel contesto un atto dovuto. Necessario, ma non per questo moralmente meno doloroso per coloro che sono costretti a farlo dagli eventi. The Last of Us II non sfrutta la violenza estrema come se si trattasse di un semplice divertimento. Al contrario, l'obiettivo è di creare momenti molto coinvolgenti che mantengano i giocatori incollati allo schermo e li facciano riflettere su certe tematiche.

Atto di dolore

Per aumentare l'empatia e dare il giusto "peso" alla brutalità presente nel gioco, Naughty Dog ha sviluppato dei nemici come fossero tante individualità. "Persone" che hanno un nome e delle relazioni sociali, al posto di anonimi fantocci senza volto. Per il giocatore diventa quindi impossibile rimanere completamente indifferente a ciò che viene rappresentato sullo schermo, "godere" del poter fare qualcosa che nella realtà non gli è concesso, perché tanto "quelli che muoiono non sono persone reali, quindi sparandogli non si fa del male a nessuno".

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Mettere l'utente di fronte a personaggi "umanizzati", visibilmente reali, con dei legami affettivi e degli obiettivi, significa immergerlo totalmente nella storia di odio e vendetta che caratterizza il gioco, ma anche "traumatizzarlo" per certi versi, spingerlo a porsi delle domande, a provare rimorso per atti di violenza necessari, non fini a se stessi, ma comunque moralmente e umanamente sbagliati. Nel gioco i nemici si chiamano per nome, reagiscono alla perdita di un amico con dettagli che lasciano pensare a chissà quale trascorso, piangono e gemono mostrando dei sentimenti quando sono in procinto di morire. E le loro voci, i loro volti sofferenti sono un fardello col quale dover convivere nel corso dell'avventura, oltre che un argomento sul quale riflettere anche dopo, a console spenta.

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Come scrivemmo qualche anno fa in un altro editoriale sul tema, un videogioco non è fatto solo di meccaniche, e quello che chiamiamo gameplay non nasce solo dalla somma tra funzioni di gioco e rappresentazione, ma anche dalla proiezione dei valori del giocatore sul tessuto ludico stesso e, di conseguenza, dalla condivisione dei valori espressi dai personaggi rappresentati. "Alla fine, questa è una storia sul ciclo della violenza", ha spiegato Halley Gross, "ma oltre a questo, è anche un oggetto di discussione sugli effetti che traumi sistematici possono avere sulla propria anima".